I genitori di Else conservano i suoi boccoli dentro un grande libro con la copertina rigida e dorata. Lo hanno intitolato Vita di nostra figlia. Sono pazzi di lei e la crescono, assai prima che ebrea, amata: sarà per questo che lei si sentirà sempre soltanto tedesca, cioè persona e non segugio, individuo e non eredità, insomma cittadina libera (di dire che gli ebrei sono gretti e insopportabili, di sposare un poeta del "vasto mondo cristiano" al posto di un Alfred qualsiasi, di non imparare a cucinare nient'altro che una zuppa di cavoli). Naturalmente, quando lei sceglierà da tedesca e non da ebrea, loro l'abbadoneranno, ma non per molto. In questa storia, l'amore verso i figli vince sempre su tutto, persino sulla guerra che li inghiotte. Alla terza gravidanza, quando Else dà alla luce Angelika, l'autrice di questo romanzo sull'Europa interbellica e a colori che gridava "la vita è irresistibile", stabilisce una regola di condotta: fare un figlio con ogni uomo che si ama. Come ci si sia attenuta, e cioè "a ogni costo. matrimonio o no, e puntualmente nelle peggiori condizioni", è il nervo del libro e di tutti i suoi baci, i suol balli, gli incontri, le sfide, i rossetti, le sigarette, i poeti, gli amici (soprattutto le amiche), i genitori che diventano nonni e si precipitano, dopo ogni parto, a portare birra e brodo di pollo ricostituenti. "Tesoro, la tua rossa ti crede fedele, vuoi che le schiarisca le idee?", scrive al suo primo marito, il bohemien episcopale, dopo avergli perdonato adulteri reiterati, essersi tagliata i capelli, non aver perso un etto, aver preso a fumare e a dividersi equamente tra vizio e cultura, i municipi della Berlino degli anni 20, che certamente non immaginava di venire schiacciata, di lì a poco, dal nazionalsocialismo, ma forse, in un antro remoto della sua coscienza, lo presagiva - come spiegare. altrimenti, quella sbornia incessante, quell'arte tanto viva, quelle donne tanto fresche, lievi e volitive? Else ci mette poco a rilanciare un nuovo assetto familiare, infilando sotto lo stesso tetto marito, amante e amante del marito; risposarsi; mordicchiare, coccolare, dondolare, crescere altri figli; baciare altri uomini "con la foga di chi muore di sete" e cacciarli quando commettono il peccato peggiore: annoiarla. Quando arriva il nazismo, Else scappa in Bulgaria: "Alla fine non ce l'ho fatta".
Persino dall'esilio, con il cuore che si ammala per il dolore della perdita di suo figlio, contagiando il resto (della vita; del corpo; della casa; della relazione, prima sempre così avventurosa e fiera, con le giornate), Else vuole solo fare la madre: ricordare alle figlie di non rinunciare agli uomini, di non cedere al cinismo, di non fidarsi mai degli eserciti dei salvatori, di detestare il fascismo, di amare. Angelika Schrobsdorff ha raccontato sua madre quando le è stato chiaro che l'irregolarità e il fulgore di lei non stavano tanto nella ribellione al bigottismo del suo tempo, al ruoli emanati anziché scelti, al nazismo, ai soprusi maschili, bensì nella ferma convinzione che, con un figlio, una donna metta al mondo la ragione per cui combattere per la libertà che vale una vita.