Torna in libreria Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge (nato nel 1891 a Bruxelles e morto a Città del Messico nel 1947), forse il testo di vita vissuta più drammatico e anche più vero della prima metà del Novecento.
“Considero un grande privilegio essere io a presentare a nuovi lettori le Memorie di un rivoluzionario” scrive Goffredo Fofi nella postfazione. Memorie di un rivoluzionario non è mai stato un libro che ha avuto successo, ma è un libro indispensabile, anche nei momenti grigi, quando – è ancora Fofi che scrive – “bisogna ricominciare daccapo, però da un’altra parte, anche quando, come a molti sembra oggi di rivivere quella condizione che Serge descrive nelle parole di esordio di Memorie.
“Sin dall’infanzia – si legge all’inizio – mi sembra di avere sempre avuto, molto netto, il doppio sentimento che doveva dominarmi durante tutta la prima parte della mia vita: quello cioè di vivere in un mondo senza evasione possibile, dove non restava che battersi per un’evasione impossibile”.
Memorie di un rivoluzionario è un libro che attraversa tutta la prima metà del Novecento, è la prima cosa organica che Victor Serge scrive una volta arrivato a Città del Messico alla fine del 1941, l’ultima tappa di un lungo tour di esili, espulsioni, abbandoni, ma senza mai tradire la propria intransigenza.
In quell’ultimo esilio, dove si trovano a coabitare tutti gli sconfitti tra gli sconfitti della sinistra europea in fuga mentre l’Europa si tinge sempre più di nero, Victor Serge scrive una resa dei conti con il suo passato che è prima di tutto il tentativo di dare spazio a quella generazione di rivoluzionari che sa non potrà mai godere di nessuna simpatia , non solo da parte degli avversari, ma anche, e forse soprattutto, da parte di quelli della propria parte con cui ci si è confrontati nella speranza che le proprie idee potessero almeno essere discusse. Anche questa è una parte di ciò Sege indica come “battersi pr un’evasione impossibile”.
Non è andata così e la storia di questo libro, soprattutto dopo è anche una conferma di questo dramma.
Libro per davvero mai scomparso, che ha avuto in Italia molte stagioni: nel 1956 è proposto da Aldo Garosci, dentro la discussione sulle rivelazioni del Rapporto Khruscev; poi passato per una stagione che ha segnato l’immaginato della nuova sinistra in Italia grazie a Attilio Chitarin, negli anni in cui sembra che la possibilità o almeno la proiezione mentale di un altro socialismo fosse possibile; infine nell’ultimo decennio del millennio quando viene riproposto, con una postfazione di Goffredo Fofi come testimonianza inquieta del Novecento e non solo di rivoluzionario deluso.
Le pagine di Serge non sono mai diventate un luogo frequentato da molti, una lettura diffusa. Da allora Victor Serge, pur non essendo mai “uscito” dal mercato librario, è rimasto comunque una figura di nicchia. Ovvero non ha mai assunto nell’opinione pubblica in Italia l’immagine della coscienza inquieta, ma solo quella del deluso o dissidente.
Perché? Forse nessuno meglio di Susan Sontag lo ha spiegato.
Serge non è mai “venuto a patti”. In un’epoca di ammirazione per gli irreducibili contro il potere la sua fisionomia dovrebbe essere esemplare. Victor Serge dovrebbe essere una figura essenziale nel pantheon di immagini del Novecento. Ma non c’è.
Tutti o molti se devono pensare un intellettuale che non si adegua, inquieto, citano George Orwell o Arthur Koestler, Albert Camus, o Ignazio Silone. Serge non compare in quella galleria. Perché? Certo, si dirà, non è stato facile nemmeno per loro entrare nella memoria pubblica. E tuttavia pur con difficoltà alla fine appunto Orwell, Koestler, Camus o e Silone sono parte di un sapere condiviso. In breve “non si può non averli letti”. Per Serge non è così. Significa che non basta “non venire a patti”. O che forse “non venire a patti” non è la categoria appropriata per capire come si costruisce quel pantheon e che altre questioni vanno proposte.
La domanda intorno alla questione Serge non è mia è di Susan Sontag e mi sembra non solo pertinente ma anche ineludibile, perché non parla di lui, ma di noi.
Sontag si chiede perché Victor Serge sia stato dimenticato comunque abbia avuto meno fortuna di altri e prova a darsi delle risposte.
Per esempio: Perché è un esule e dunque nessuno può rivendicarlo appieno? Perché non fu uno scrittore impegnato in modo discontinuo nella militanza, “bensì un attivista e un agitatore tutta la vita?” Perché ha scritto tantissimo e la maggior parte della sua scrittura non è letteraria? Perché nessuna letteratura nazionale può rivendicarlo? perché nemmeno a sua fine sollecita una reazione? E poi scrive:
“Sarà perché nella sua vita ci furono troppe dicotomie? Fu un militante, in lotta per un mondo migliore, fino alla fine dei suoi giorni, cosa che lo rese esecrabile alla destra (…) Ma fu un anticomunista abbastanza perspicace da preoccuparsi che il governo inglese e quello americano non avessero compreso come dopo il 1945 Stalin mirasse a impadronirsi dell’intera Europa (a costo di una terza guerra mondiale). E ciò, in un’epoca in cui tra gli intellettuali dell’Europa occidentale erano diffusi i preconcetti filosovietici e la diffidenza per gli anticomunisti, fece di Serge un rinnegato, un reazionario, un guerrafondaio. Come recita un vecchio adagio, Serge seppe «scegliersi i giusti nemici».” [pp. 52-53].
Memorie di un rivoluzionario è un tetso che solo apparentemente racconta una storia individuale. In realtà quella storia chiama in causa una generazione, si intreccia con quelle di molti altri che da sponde vicine o anche opposte, hanno attraversato alcuni dei momenti essenziali del Novecento europeo. Sullo sfondo le scelte e svolte della sua vita singolare: la miseria a Bruxelles (dove Serge nasce figlio di emigrati russi molti vicini alle correnti del nichilismo) all’inizio del Novecento, l’ambiente anarco-sindacalista con cui cresce e si forma politicamente negli anni che precedono la Prima guerra mondiale; poi la Rivoluzione russa e i contrasti interni, per arrivare infine al momento in cui lentamente Serge avverte e ciò che sta maturando. Una condizione che rende nei suoi interventi, ma soprattutto nei romanzi che egli improvvisamente riprende a scrivere a partire dal 1928, quando ormai considera chiuso il processo avviato con l’ottobre 1917 e che negli anni successivi ha già segnato momenti di crisi profonda. Essenzialmente due sono gli eventi che segnano le tappe della sua crisi : la rivolta a Krontstadt dei marinai nel 1921 quando l’Armata rossa interviene e reprime la rivolta) e poi la marginalizzazione e l’inizio della criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione interna.
A quel punto, siamo nel 1928, matura per Serge un passaggio : cessa la scrittura di testi politici militanti e ritorna a scrivere con un taglio letterario. Non che al centro della sua scrittura stia la creazione letteraria pura. La sua cifra rimane ancora lo scavo anche documentale nella realtà politica e cultrale, ma la letteratura come scrive nelle Memorie ha anche la funzione di scavare più a fondo.
“Il lavoro storico, – scrive non mi soddisfaceva interamente. Oltre a esigere mezzi e calma di cui non disporrò probabilmente mai, non permette di mostrare sufficientemente gli uomini vivi, d smontare il loro meccanismo interno, di penetrare nella loro anima. Una certa luce sulla storia non può essere gettata, ne sono persuaso, altro che dalla creazione letteraria libera e disinteressata. (…) Io concepivo, io concepisco ancora lo scritto come bisogno di una giustificazione più solida, come un mezzo di esprimere per gli uomini ciò che i più vivono senza sapere esprimere, come un mezzo di comunione, come una testimonianza sulla vasta vita che fugge attraverso di noi e di cui dobbiamo tentare di fissare gli aspetti essenziali per cloro che verranno dopo di noi” [p. 293].
Così descrive i momenti drammatici in cui maturano le scelte e si costruisce la svolta che condurrà all’affermazione del totalitarismo in Urss. E’ sempre una storia in cui contano moto i comportamenti individuali, i conflitti di status, di convinzione, la natura e la dimensione sempre drammatica e conflittuale delle scelte che si fanno in cui la voce protagonista è quella amara di chi vuole e deve fare il bilancio dela sconfitta. Così sarà per La città conquistata che scrive nel 1928, e per Se è mezzanotte nel secolo che pubblica nel 1940 e che per molti aspetti è l’anticamenra delle Memorie. In mezzo ci sono prima il suo arresto, poi il suo rilascio; poi la sua deportazione e infine la sua espulsione (anche in seguito alla mobilitazione internazionale a suo favore). Siamo nell’aprile 1936 quando Serge viene espulso dall’Urss.
Per molti aspetti non sa di essere un simbolo, anche involontariamente. Un dato su tutti: dopo di lui nessuno uscirà vivo dal GULag se non per tornare a casa. In GULag si muore o si sconta la pena, ma non si è espulsi.
Non è chiaro quanta consapevolezza avesse Victor Serge di questa sua condizione “privilegiata”. E’ chiara invece la dimensione della sconfitta che ha di fronte. E’ una dimensione che percespisce già nel 1933 quando scrive un testo che esce solo in francese dal titolo significativo Tout est mis en question e che segna l’inizio della campagna in suo favore per liberarlo, e si chiude nel 1937 quando la parabola del processo rivoluzionario è scritta in un saggio dal titolo significativo Destin d’une révolution (Grasset 1937) in cui la scena ultima è quella del primo dei tre grandi processi che segnano l’eliminazione fisica, dopo quella politica, degli oppositori interni al partito bolscevico.
Se nella primavera 1933, all’inizio della sua carcerazione a Orenburg dove rimarrà per tre anni, pur con molte perplessità egli è ancora fiducioso sulla possibilità del rovesciamento del processo in atto in URSS, questo dato cambia radicalmente nel 1937. Per Serge, il dato della proprietà collettiva osserva in Destin d’une révolution, ancora da molti ritenuto il tratto discriminate che segnerebbe la permanenza di un fisionomia socialista della realtà sovietica, è ormai una “finzione”. Quel dato non costituisce ai suoi occhi la prova della natura non capitalistica del regime.
Così scrive nel 1938 – ripercorrendo il ciclo politico aperto all’inizio del decennio con l’industrializzazione forzata, con la guerra ai contadini, quindi con i grandi processi – “si afferma sempre più nettamente una nuova classe privilegiata che, per assicurare il suo avvenire, scarta gli artefici della rivoluzione; ma essa deve mantenere la proprietà collettiva dei mezzi di produzione che oggi sembra essere l’unico tratto acquisito e durevole della rivoluzione russa”.
La proprietà collettiva non è più il segno che distingue tra capitalismo e socialismo, ma solo un dato tecnico che consente al nuovo potere totalitario espresso dal partito di mantenere saldo il controllo politico sulla società.
Qualcosa è cambiato radicalmente rispetto all’estate 1936, alle soglie del primo dei grandi processi, quando a Victor Serge sembrava che, per quanto il partito staliniano avesse in mano le leve strutturali del potere, ci fosse ancora la possibilità di un’inversione. Allora aveva scritto: “Diciannove anni dopo aver conquistato il potere i lavoratori di Russia devono ancora prepararsi a riconquistare tutto al prezzo di nuove lotte. Ma il loro punto di partenza non è più ne secoli dell’oppressione e della sconfitta. Essi hanno alle spalle delle grandi vittorie. Sanno, in ogni caso sentono, che nessuna maledizione pesa su di loro. Le prove di ieri garantiscono dell’avvenire. Niente è finito, tutto ha inizio”.
A partire dal 1937 il quadro inizia a diventare più fosco. Il processo di rovesciamento non è più solo politico. La prospettiva non è più la correzione del quadro esistente, ma la necessità di dover ricominciare daccapo.
Ma questo dato non riguarda solo il mondo comunista o la sinistra che ancora guarda all’Urss come un punto di riferimento. Riguarda anche, e forse soprattutto, il complesso mondo democratico e di sinistra di tutta l’Europa alla vigilia dello scoppio della nuova guerra mondiale. Nei due anni che precedono lo scoppio della guerra e di cui Serge dal suo angolo privilegiato di osservatore a Parigi vede soprattutto gli effetti nella sinistra (che non vuole il fascismo ma che non è disposta a “morire per Danzica”) si convince del fatto che ormai il ciclo politico, culturale, emozionale, inaugurato con la crisi della Prima guerra mondiale sia chiuso e che dunque si tratti di ricominciare daccapo.
Nelle pagine conclusive Serge si spende anche in un cauto ottimismo sul futuro (in fondo chiude quelle pagine quando l’avanzata del nazismo è stata arrestata e anche se con lentezza l’Europa inizia a liberarsi). E tuttavia questo non toglie che il suo sia un ottimismo molto cauto, forse di maniera.
“Varie volte – scrive – mi sono sentito sull’orlo di una conclusione pessimistica sulla funzione del pensiero nella società. (…) Ho constatato in politica la stupefacente impotenza della previsione giusta , che fa boicottare, maledire o perseguitare colui che la formula. Il ruolo dell’intelligenza critica mi è apparso pericoloso e pressoché inutile … E’ la conclusione più scoraggiante a cui mi sia sentito portato. Mi guardo bene dal proporla come valida; metto questo sentimento sul conto della mia propria debolezza e persisto a considerare il pensiero critico e chiaroveggente come una necessità assoluta, come un imperativo categorico a cui non ci si sottrae senza far torto alla comunità…”. [pp. 425-427].
Finita la guerra, il quadro che va a riaprirsi non lo conforta sulla possibilità di una svolta sostanziale, comunque di una nuova stagione.
“Per troppo tempo – scrive nel 1945 – gli oppositori credettero che la macchina fosse buona e che bastasse cambiarne i macchinisti perché tutto andasse per il meglio. Trockij è morto con quest’idea dello “Stato operaio burocraticamente deformato”. In Russia, solo nel 1932 si cominciò a comprendere che la macchina stessa era umanamente intollerabile.”
E nel 1947, in un testo che compone nell’estate e che esce a pochi giorni dalla sua morte aggiunge:
“Gli anni 1936-39 segnano una nuova svolta decisiva. Grazie alle “epurazioni” implacabili, si è realizzata la trasformazione delle istituzioni, così come quella dei costumi e dei quadri dello Stato ancora definito sovietico, benché non lo sia più minimamente. Ne è scaturito un sistema perfettamente totalitario, perché i suoi dirigenti sono i padroni assoluti della vita sociale, economica, politica, spirituale del paese, mentre l’individuo e le masse non godono in realtà di nessun diritto”.
La sinistra europea ci avrebbe messo altri 40 anni per iniziare ad affrontare con radicalità una questione con le risorse che aveva.
La partita è ancora aperta.