Tutte le disgrazie dell'isola sono sintetizzate in una bottiglia». È categorico Jean-Jacques, creolo dell'isola della Réunion, filosofo e giocatore di bocce. E declama: «Rum, abbrutimento, violenza, odio...». Parla con i suoi amici, René e Christos, strampalato cinquantenne arrivato lì tanti anni fa dalla periferia parigina. E poliziotto, alle prese con uno strano caso. È l'intrigo del nuovo romanzo di Michel Bussi, Non lasciare la mia mano, in uscita per E/O l'11 maggio. Il giallista ha abbandonato le pioggerelline uggiose della sua Normandia (come dimenticare Ninfee nere, uno dei suoi bestseller) per le atmosfere afose e madide di sudore dell'isola tropicale. Tutto inizia con la misteriosa scomparsa di una donna e, a ruota, una serie di delitti inaspettati. Eccolo Bussi, 52 anni, che l'anno scorso è stato lo scrittore francese più venduto nel mondo, dietro solo a Guillaume Musso.
Perché la Réunion?
«La conosco bene, ci sono stato più volte, sia come turista che per lavoro. È stata una scelta geografica ma anche sociale».
In che senso?
«Mi affascinava il contrasto fra la sua immagine da cartolina, con il mare e la laguna e le noci di cocco: il paradiso perduto. E dietro una realtà non così idilliaca: disoccupazione molto alta rispetto alla Francia nel suo complesso, record di violenza, sopratutto domestica. E l'alcolismo».
Anche il romanzo comincia in un albergo da sogno...
«Agli inizi Martial Bellion sembra un turista qualsiasi, giunto dalla madrepatria. Poi si scoprono dei retroscena e legami profondi con l'isola. La polizia inizia a inseguirlo attraverso la Réunion».
Come al solito, i percorsi sono ritratti con estrema precisione. È la sua anima di geografo?
«Utilizzo sempre una carta per avere una visione d'insieme. Vado sul posto. Ma faccio ricorso anche a Google Maps e Google Street».
Insegna ancora all'Università di Rouen?
«In realtà mi sono messo in aspettativa dal settembre scorso. Ho troppi progetti letterari adesso. Ma abito ancora qui».
Fra l'altro lei è specializzato in geografia elettorale, molto utile, di questi tempi in Francia...
«È vero, dalle presidenziali il mio Paese esce spaccato, anche a livello di territori: quelli più ricchi e vincenti nella mondializzazione hanno votato per Emanuel Macron e i più poveri e perdenti per Marine Le Pen. È pure una frattura tra società aperta e chiusa».
Cosa vuol dire diventare famosi solo a quarant'anni, come nel suo caso?
«Ho sempre avuto voglia di scrivere ma non ho messo il successo letterario davanti a tutto: avevo il mio lavoro. Il successo tardivo permette di restare spontanei, più personali. Poi, mi sono fatto conoscere dapprima in Normandia, è stato un vero passaparola, fatto anche di letture nelle più piccole librerie. Resto affezionato a quel mondo».
È un provinciale orgoglioso?
«Diciamo ambizioso. Non devo il mio successo ai media parigini: ne sono fiero».
Anche Non lasciare la mia mano si conclude con un finale a sorpresa, come sempre nei suoi libri. È più una tradizione anglosassone che francese: ha imparato la tecnica in qualche scuola di scrittura?
«Assolutamente no. Mi viene naturale. Ho sempre immaginato delle storie nella mia testa, con un inizio e una fine. Me le raccontavo, non necessariamente le scrivevo».
Ora che è "emigrato" dalla Normandia, potrebbe anche sbarcare in Italia con uno dei suoi roman noir. Che ne dice?
«Chissà. Mi affascina molto la Sicilia. L'ho visitata più volte. Ho letto Andrea Camilleri. D'altra parte con Tempo assassino avevo lasciato la mia terra, destinazione la Corsica. Mi sono già avvicinato all'Italia».
La Normandia è solo la sua terra o qualcosa di più?
«È una Francia in miniatura, con tante differenze. Può essere più vicina a Parigi o al mare, riserva paesaggi industriali o completamente rurali. Permette di raccontare storie diverse».
Lei è stato tradotto in più di 30 lingue. Questo le permetterà di viaggiare. Ne è contento?
«Molto. Sono appena rientrato dalla Corea del Sud. Seul mi ha affascinato. Ha un'apparenza occidentale ma gli abitanti rivelano il loro carattere asiatico. E perfino uno strano infantilismo. Anche quelli sono contrasti che sarebbe bello raccontare».
Uno dei motivi ricorrenti dei suoi libri, che si ritrova pure in Non lasciare la mia mano, è la separazione di un piccolo da un genitore. Anche lei ha perso presto suo padre. Un riflesso autobiografico?
«È inconscio questo nei miei romanzi, ma esiste. Sono le mie ossessioni che riaffiorano, che ritornano alla superficie. Anche se non faccio mai una trasposizione autobiografica nei miei personaggi, mai mi nascondo dietro di loro».
Quali sono i suoi scrittori di riferimento?
«Mi sono alimentato tantissimo alla letteratura popolare francese, da Marcel Pagnol a Jacques Prévert, passando per René Barjavel e Bernard Leneteric».
La musica?
«L'ascolto soprattutto per rilassarmi, per prendermi delle pause quando scrivo. E allora vado alla grande con i soliti Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Queen, Dire Straits. Resto nell'ambito del rock anni 70 e 80, quello della mia generazione».
Per concludere, ritorniamo a Non lasciare la mia mano. Come ha ideato i personaggi dei due poliziotti principali?
«La giovane Aja è in parte creola e per il resto zarabe, come dicono alla Réunion: la popolazione di origini indiane e musulmana. Il suo fido sottotenente Christos è bianco e "zoreille", i francesi della madrepatria, residenti sul posto. Ho giocato sulla differenza dì razza nella gerarchia. Ma in realtà l'opposizione interetnica nell'isola non è la stessa delle Antille francesi, che hanno un passato di schiavitù. Alla Réunion, alla fine, il contrasto non è tra le etnie, neanche fra le classi sociali. Ma semplicemente tra chi è ricco. E chi è povero».