Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Libri

Testata: Il foglio
Data: 30 aprile 2017

A oggi, la letteratura mondiale non è quella larva sterile che lamentano i cultori dei bei tempi andati ed è ancora in grado di produrre capolavori, anche se spesso non sembra, scorrendo rapidamente (o anche meno rapidamente) gli scaffali delle nostre librerie. Qual è la differenza che intercorre tra un buon libro e un capolavoro? Sostanzialmente l'onda d'urto che si abbatte su chi legge. Se poi nel mare magnum della meraviglia prodotta da un libro ci vanno a nuotare davvero tanti avventori delle librerie, si ha un successo. Accade che un capolavoro letterario possa diventare un successo. E che l'autore non sia ancora morto quando avvenga la sua consacrazione alla letteratura.

È raro, ma accade. Ora, probabilmente la raccolta di tredici racconti Perle alla luce del giorno dell'israeliana Savyon Liebrecht, che è un vero e proprio masterpiece, è destinato a non fatturare cifre da capogiro, soprattutto in Italia dove a quanto pare i racconti fanno storcere il naso, tanto più se prodotti da una penna, come in questo caso, eminentemente letteraria. In ogni caso, questa recensione vorrebbe contribuire a far fruttare il giusto riconoscimento a una scrittrice e alla sua opera che lo meritano davvero. Leggere i racconti della Liebrecht è come passeggiare per strada e venire colpiti all'improvviso dalle voci e dai suoni che provengono da una delle finestre delle case che si affacciano sulla via, avvicinarsi, tendere l'orecchio; captare e assorbire storie di cui si ignorano l'inizio e la fine e proseguire lungo il proprio cammino pensierosi, col forte dubbio, quasi amaro, di non aver capito fino in fondo a cosa si è assistito. In pratica, si ha l'impressione di leggere racconti. Racconti su ebrei, siano essi israeliani o europei, e su ciò che li circonda.

Ad esempio, mentre Dina Amsalem di ritorno dal Canada, dove vive, percorre in macchina i luoghi della sua infanzia, tramite il filtro del suo sguardo ti fai strada tra le lenzuola stese nei cortili mulinanti nella calura agitata dal vento secco, le casupole con i tetti scoperchiati su un cielo che solo lì sembra preoccuparsi di quegli esseri brulicanti che occupano il pianeta, tra lo sguardo diffidente di chi conosce solo un modo di vivere e non ha mosso un passo oltre il proprio paese da quando è venuto al mondo, ti commuovi con lei, ti ricordi del perché ami da dove vieni e con senso di colpa radical chic avverti che a volte la povertà è così suggestiva e ancestrale e pittoresca che quasi vorresti unicamente ammirarla, per nutrirtene, e lasciare e tutto così com'è, solo per poter sentire ancora, come Dina, quella cosa stupenda e angosciante che è il dolore del ritorno, che è la nostalgia. Savyon Liebrecht butta lì parole come "Galilea", "kibbutz", "mikveh" o inizio di periodi del tipo: "La donna si alzò all'improvviso, girò lo sguardo e parve ammaliata dal villaggio arabo di al Issawiya, visibile sulla sinistra, e dai monti di Giuda di fronte a lei, rilucenti come in un miraggio nell'aria di Gerusalemme prima della pioggia" e a te, lettore, viene un tonfo al cuore.

Ma lo sa, questa donna, questa scrittrice, cosa evoca con immagini di tale portata nella mente di noi sperduti occidentali nomadi vaganti alla ricerca di radici che disintegriamo? La nostra storia, le nostre colpe abramitiche. le nostre ataviche paure islamiche. E perché la letteratura è comprensione, è conoscenza, è collidere con altri orizzonti, quando arrivi alle pagine conclusive di Perle alla luce del giorno non sei più la stessa persona che ha iniziato quel libro e allora sai che è vera arte, quello che hai letto, perché ti ha cambiato.