Diciassette incisioni, risalenti al Sedicesimo secolo, realizzate dal fiammingo Thodore de Bry e utilizzate dal vescovo cattolico Bartolomé de Las Casas nella sua «Brevissima relazione della distruzione delle Indie» (1542) per mostrare di quali barbarie si fossero resi protagonisti i conquistadores sbarcati 50 anni prima nel Nuovo Mondo: artefici di un genocidio che sterminò novanta milioni di indigeni, passato alla storia come la leggenda nera della Conquista.
A quelle acqueforti lo scrittore colombiano Pablo Montoya ha dedicato un intero capitolo del suo terzo romanzo «Trittico dell'infamia», nelle librerie italiane da qualche settimana (a giorni sarà disponibile anche un'edizione illustrata a cura della Fondazione Mudima per l'arte contemporanea di Milano).
In America Latina è stato un vero caso letterario, capace di aggiudicarsi i più importanti riconoscimenti conferiti alla narrativa in lingua spagnola: il Premio Romulo Gallegos (assegnato in passato a Gabriel Garcia Marquez e Mario Vargas Llosa, tanto per citare due nomi) e il Premio José Maria Arguedas.
«Confesso che la stesura di quelle pagine è stata dolorosa: avevo la sensazione che una mano di ferro mi stringesse il collo per soffocarmi» racconta Montoya, classe 1963, docente di Letteratura all'Università di Antioquia in Colombia. Per tutto il mese di aprile è ospite dell'ateneo di Bergamo, dove tiene un corso dedicato al racconto latinoamericano in qualità di visiting professor; è intervenuto a un seminario internazionale di due giorni dedicato al tema dell'esilio, culminato con un dibattito intorno al suo «Trittico» al quale hanno preso parte Fabio Rodriguez Amaya - docente di lingue e letterature ispanoamericane - e Alessandro Secomandi.
Protagonisti di questo «metaromanzo storico», definito da «El Pais» «un libro ammirevole», sono tre artisti calvinisti, realmente esistiti, sfuggiti alle persecuzioni religiose: il pittore Jacques Le Moyne, primo a lasciare testimonianze visive sugli usi e costumi dei nativi del Nuovo Mondo; il pittore François Dubois, scampato al massacro della Notte di San Bartolomeo, nonché autore del celebre dipinto ispirato alla carneficina di protestanti; infine il già citato Theodore de Bry.
«È un'opera cupa, opprimente, in cui soffermo su ciò che mi interessa sin dal mio esordio: l'opposizione tra l'artista e il potere. Al contempo, mi premeva introdurre l'elemento pittorico a fianco della narrazione. Desideravo mettere in evidenza il fil rouge che unisce le guerre di religione del XVI secolo in Europa — soprattutto in Francia e nelle Fiandre — e lo sterminio degli indios, sottolinea l'autore. Non posso fare a meno di constatare come questo saggio sulla violenza sia ancora tristemente attuale: penso al mio paese, la Colombia, che continua ad essere una grande fossa comune, ed è la seconda nazione per numero di sfollati, dopo la Siria. A chi mi fa notare certi anacronismi rispondo che sono uno scrittore, non uno storiografo: il mio fine è quello di attualizzare la permanenza dell'orrore. Alcuni lettori mi hanno accusato di essere stato troppo lugubre: del resto a scuola ci hanno insegnato che la Conquista delle Americhe è stata una grande impresa. Ho impiegato decadi a capire che invece è tutto il contrario. Voglio mostrare ai giovani fino a che punto possa spingersi la crudeltà dell'uomo, rammentando loro che la nostra storia non ha nulla a che fare con l'epica e la retorica tramandate per secoli, bensì si fonda su un atroce massacro».