Quando è stato insignito del Premio Romulo Gallegos 2015, il più importante tra i premi per la narrativa di lingua spagnola, lo scrittore colombiano Pablo Montoya ha dichiarato che il suo lavoro si muove in territori letterari lontani sia da quelli del celeberrimo connazionale Gabriel Garcia Marquez sia dai romanzi verità o noir ispirati alle cronache dei narcos che nel suo Paese vanno per la maggiore. E a leggere Trittico dell’infamia, ora tradotto in italiano con precisione da Ximena Rodriguez Bradford, appare evidente che i maestri di questo cinquantaquattrenne autore sono altrove, specie in Francia, dove ha passato anni di perfezionamento dopo gli studi universitari in patria: vengono subito in mente Pascal Quignard, Pierre Michon e, andando all’indietro, le Vite immaginarie di quel grande maestro della storia congetturale che fu Marcel Schwob. Perché il Trittico è un libro di storia, in parte indagine dal vero in parte congettura, anche se, malgrado ciò che dichiara l’autore, non così estraneo alle cronache della violenza dei nostri giorni.
La vicenda, anzi le tre vicende che compongono il libro sono ambientate nella seconda metà del 1500: un’epoca che ha visto dispiegarsi il fulgore del genio umano in ambiti e territori diversi, dal Rinascimento italiano allo splendore delle Fiandre fino all’Inghilterra di Shakespeare e al Siglo de Oro spagnolo, con profusione di bellezza, creatività, talento, audacia inventiva. Ma di questo abbagliante periodo a Montoya interessa piuttosto il rovescio tenebroso, che affronta mettendo in scena tre destini individuali accomunati, in differenti modi, da una stessa circostanza di sangue e orrore. Il primo personaggio è il pittore e cosmografo Jacques Le Moyne, che nel 1564 salpa per il Nuovo Mondo con una spedizione di protestanti francesi che vogliono lì creare una colonia sicura per gli adepti della religione riformata. Ma, agli ordini di Filippo II, che ha dato l’ordine di annientare l’eresia ugonotta oltre oceano e soprattutto di appropriarsi dei territori, arrivano alle Tierras Floridas (l’attuale Florida) le truppe comandate dall’avventuriero spagnolo Avilès: per i francesi l’avventura finirà in un massacro, così come in un massacro di ancora maggior efferatezza saranno travolti gli indigeni abitatori di quelle terre rigogliose. Questo è il tema del racconto di Montoya: il conflitto tra le differenze (cattolici/protestanti; indigeni/europei) che diventa sterminio, pura cecità distruttrice, esercizio esaltato della crudeltà.
I non crudeli non hanno infatti grandi risorse. L’artista Le Moyne è affascinato dalla diversità del popolo che incontra di là dall’oceano, affascinato dal corpo-tela di quegli uomini, un corpo coperto di tatuaggi che esprimono il loro estro e i loro sentimenti. Il pittore disegna i loro strani arabeschi che sembrano l’eco del misterioso paesaggio che li circonda e un’espressione calzante della loro anima e civiltà, ammira quelle immagini al punto di offrire il suo stesso corpo alle forme di quelli che considera maestri di un’arte sconosciuta. Mentre la spedizione si organizza costruendo un forte, reprimendo rivolte, approvvigionandosi maldestramente di viveri, lui cerca di penetrare il mistero dell’ignoto che lo circonda senza lasciarsi spaventare dalla nudità degli indios o dai loro riti: documenta nei suoi disegni ciò che vede come una carta del meraviglioso possibile. Poi il disastro.
Apparentemente, all’inizio del secondo tassello del Trittico, di Le Moyne e anche dei suoi disegni si sono perse le tracce. Qui dalla terza persona che articolava il primo racconto si passa alla voce personale del protagonista, François Dubois, anche lui pittore legato alla nuova confessione protestante, che ha trovato rifugio a Ginevra dopo la terribile notte parigina di San Bartolomeo, agosto 1572, quando i cattolici fanno strage degli ugonotti, dopo aver ucciso la loro guida, l’ammiraglio Gaspard de Coligny. Dubois rievoca gli anni di Parigi, quando era intento al suo apprendistato e immerso nella riflessione sulla complessità dell’animo umano e sul difficile dovere dell’arte di rimanere fedele a un esercizio di bellezza e verità. Si interrogava allora anche sulla sua conversione: figlio di un’ardente cattolica aveva trovato la via della salvezza interiore negli insegnamenti di Lutero e di Calvino. Sempre a Parigi, a complicare i suoi pensieri, c’era stato l’incontro con quello che ormai chiamavano «il pittore degli indios», cioè un quasi delirante Le Moyne miracolosamente scampato al massacro della Florida e tornato in patria. L’uomo era diventato una sorta di benigno messaggero della diversità ma il suo messaggio ancora una volta sarebbe annegato nel sangue. Nella notte di San Bartolomeo Dubois perderà la moglie e il figlio che stava per nascere e tutta la sua opera. A Ginevra di tutto quanto ha vissuto non gli resta che il ricordo: sarà lui, dietro insistenza dei suoi confratelli, a dipingere il più celebre dei quadri sulla strage dei protestanti francesi.
Terzo protagonista dell’ultima parte del Trittico dell’infamia è un maestro incisore di Liegi, Théodore de Bry, che viaggia per l’Europa per sfuggire, ancora una volta, alle persecuzioni contro i protestanti. Incrociando, in un modo in cui il caso e il destino s’intrecciano, i percorsi di Le Moyne e di Dubois. Sarà lui a raccontare in una serie di incisioni le terribili crudeltà perpetrate dagli occidentali nel Nuovo Mondo e la ferocia dei massacri europei.
Ma qui, nell’ultimo racconto, la voce narrante è quella dello stesso autore del libro, Montoya, che va sulle strade battute dai suoi protagonisti, li sogna, li immagina, indaga sulle poche e confuse tracce che hanno lasciato. Non vuole svelare il suo gioco narrativo ma interrogarlo. Cosa lo ha spinto a frugare in quella tremenda increspatura della Storia, peraltro già tristemente nota, delle guerre di religione e della tragica colonizzazione delle terre oltre oceano o, secondo la sua definizione, di «quel crimine immane che fu la conquista dell’America»? Sarà forse perché da tutte le crudeltà compiute dagli europei è nato il suo Paese, cioè «quel paese traboccante di iniquità sociale che è ancor oggi la Colombia»? O perché, come scrive in un’altra pagina, oggi potrebbe dimostrare ai suoi tre protagonisti, con un breve elenco delle atrocità contemporanee, che il nostro tempo è «più spaventoso» del loro? Montoya però non desidera «perdersi in paragoni secolari», e sarebbe fare un torto a questo autore che reclama l’autonomia dell’arte e della scrittura dall’urgenza dell’attualità considerare il suo libro solo come una requisitoria contro il razzismo, l’accanimento di una civiltà sull’altra, l’oppressione delle diversità nel sacro nome della religione. Trittico dell’infamia è una scrittura romanzesca dove i personaggi inseguono il loro destino nella fitta trama degli eventi che li avvolgono, come accade nei romanzi storici. Ma il romanzesco qui diventa meditazione sulle vicende umane nel corso del tempo: non si tratta solo di ricreare un ambiente o un’epoca, ma di scuoterli, di sottoporli a un serrato interrogatorio fino a che il tempo infame di ieri non riveli la presa che non smette di avere sul tempo infame di oggi.