Dopo il piano-sequenza di un’auto che attraversa l’Eur a Roma, i due protagonisti aprono una porta per “entrare” nel film; e, insieme, nell’appartamento dove questo si svolgerà per intero. Lui è Elia, scrittore di gialli che ha perduto la memoria in seguito a un incidente non chiaro; lei, innominata, è sua moglie, che all’inizio pare trepida e tutta preoccupata di fargli recuperare i ricordi. Completamente spaesato, l’uomo sembra non rammentare nulla: né dell’appartamento, né del lungo matrimonio, né di se stesso, né tantomeno dell’opinione che la consorte ha di lui. È questo l’espediente drammaturgico che innesca il nuovo film di Alex Infascelli, di ritorno al lungometraggio di finzione dopo una decina d’anni e una terna di thriller interessanti, diretti tra il 2000 e il 2006.
Tratto da un libro (poi pièce teatrale) di Eric-Emmanuel Schmitt, Piccoli crimini coniugali appartiene a un genere preciso, ma dalle definizioni variabili. I francesi lo chiamerebbero un “huis clos”, un film a porte chiuse dove si celebra un processo privato; e potrebbero usare anche l’espressione “jeu de massacre”, per come i personaggi si massacrano l’un l’altro usando quali armi le parole. Gradualmente, i due demoliscono l’apparato di menzogne e convenzioni quotidiane, mentre si rinfacciano (è la terapia per la memoria di lui, che riaffiora poco a poco? ma sarà poi davvero smemorato?) delusioni e frustrazioni, rinunce e promesse mancate, con incursioni nella nostalgia del tempo in cui s’incontrarono e s’innamorarono. La tesi soggiacente — se tesi esiste — è che ci si sposa sempre “contro” qualcuno; e non è nuova: all’aggressività sessuale, gioiosa e reciproca, dei primi tempi sottentra per gradi l’aggressività di parole e silenzi dell’età matura: quella sì contundente e crudele. Il film di Infascelli rispetta le convenzioni del dramma da camera borghese, che al cinema si traduce in opere claustrofobiche teatrali per definizione, a pochi personaggi e svolte in unità di luogo e di tempo. Se non tutti le amano, vale la pena di ricordarne le declinazioni migliori: come quelle del cinema di Ingmar Bergman o Chi ha paura di Virginia Woolf?, dal dramma di Edward Albee, con Richard Burton e Liz Taylor. Ebbene: nel filone, delicato da maneggiare, Infascelli non demerita affatto. Se certi dialoghi e l’ambiente risultano artificiosi, il pregio di Piccoli crimini è proprio l’artificiosità, che diventa cifra stilistica. Una volta tanto un film italiano non adotta, per mettere in scena i regolamenti di conti tra le coppie, la chiave compiacente della commedia, scegliendo invece la crudeltà e una dose sottile d’ironia. I soli due attori in scena, Margherita Buy e Sergio Castellitto, assecondano la scelta in stato di assoluta grazia, spingendo volta a volta lo spettatore all’identificazione per poi respingerlo, rimandandolo al “via”. Sboccata e fragile, remissiva e sarcastica, Buy s’immerge fino al collo in un ruolo che la riscatta — finalmente — da tanti personaggi forzati al buonismo. Quanto a Castellitto, il film gli ritaglia una scena genialmente straniante in cui accenna passi di danza sulle note della celeberrima canzone di Donna Summer I feel love. L'algida, perfetta, fotografia di Arnaldo Catinari fa il resto.