È “Piccoli crimini coniugali” (edizioni e/o) di Éric-Emmanuel Schmitt, drammaturgo e scrittore francese di successo, amato dal cinema. Una “saggia riflessione sulla madre di tutte le guerre: la coppia” che Alex Infascelli ha portato al cinema con Margherita Buy e Sergio castellitto nel ruolo dei due coniugi in guerra. Un’oretta di lettura che non fa del male a nessuno e che evita la banale dilettantesca prosa di tante intimistiche narrazioni nazionali, di tanti autori che non hanno proprio nulla da dire e che non sanno neppure come dirlo.
Il Triangolo si rinnova: ancora Lui, Lei e l’Altro, dove l’Altro però è solo Lui che ha perso o fa finta di aver perso la memoria e non si riconosce o fa finta di non riconoscersi in Lui e soprattutto non riconosce o fa finta di non riconoscere Lei. Per un po’ almeno, finché le conseguenze di un colpo in testa (involontaria caduta dalle scale o irata botta volontaria) si attutiscono o si svelano inconsistenti e i conti tornano e l’Altro si dissolve di fronte alla memoria forse mai smarrita ma sicuramente ritrovata di Lui: “L’amnesia era un modo per indagare, per capire… volevo scoprire perché mi odiavi tanto da farmi fuori. L’amnesia era un trucco per tornare, per ritrovarti. Ti ho mentito, ma per amore”. Naturale…
Il colpo in testa, fortuito o meno, propizia effetti prodigiosi: intanto regala quel distacco e quella distanza che aiutano a giudicare una storia coniugale senza le deviazioni del coinvolgimento, consente qualche ruggente confidenza, quindi restituisce alla coppia la possibilità di ritrovarsi in piena armonia, avendo fugato qualsiasi sospetto. Lui e Lei si amano di nuovo, come ai vecchi tempi, come all’inizio del matrimonio, ormai ultradecennale.
Qui si tocca con mano il miracolo. O si entra nel mondo delle favole. In un caso o nell’altro, all’ultima pagina di Piccoli crimini coniugali, pezzo (di bravura) teatrale di Éric-Emmanuel Schmitt, siamo tutti felici, contenti e un poco invidiosi: loro, Gilles e Lisa, ce l’hanno fatta… benedetto fu il colpo in testa.
Torniamo da capo, per capirci meglio. Interno borghese, si immagina sobrio e raffinato. Non mancheranno libri alle pareti. Lui, Gilles, scrittore di gialli, un intellettuale del tempo presente, torna a casa dall’ospedale, dopo lo spiacevole “incidente” domestico. Lei, Lisa, apre la porta trepidante, mostra l’appartamento.
Gilles si guarda attorno e scuote la testa. Lisa insiste. “Lui guarda i mobili uno per uno, coscienziosamente, poi scuote il capo, vinto, distrutto”. Niente. Si comincia così. Si continua e il dialogo si infittisce, talvolta si inasprisce, talvolta si interrompe. L’uno e l’altro, a turno, si preparano la valigia, uno varca la soglia di casa, l’altro lo rincorre e lo riconduce tra le mura domestiche.
Si esplorano antiche vicende, si scoprono screzi e oscurità, ci si accusa di “terze vie” extraconiugali, si enunciano finti ricordi e paure autentiche. Gilles prova a riavvicinarsi, cerca il contatto fisico (vuoi che si facciano mancare il sesso?), Lisa lo respinge… Via di questo passo. Qualche mistero si dirada. Parlano e parlano bene. Uno fa da psicoanalista per l’altro. Dal viaggio di nozze (a Portofino) in poi, domanda dopo domanda, sentenza dopo sentenza si arriva senza un attimo di respiro all’ultima pagina. Il bilancio lo lasciamo a Lisa: “Ogni frase mi provoca un brivido lungo la schiena, mi sento il cervello intorpidito, ho tutti i sintomi di un malessere che si chiama attrazione irresistibile”.
Giallo e noir, siamo nel “genere” secondo una declinazione non proprio canonica. Gradevole. Suspense (a cercarla). Scrittura di “rara eleganza” (come ho letto in una entusiastica recensione). “Macchina narrativa perfetta” (idem). “Saggia riflessione sulla madre di tutte le guerre: la coppia” (come sopra). Bene. Aggiungerei solo: un’oretta di lettura che non fa del male a nessuno e che evita la banale dilettantesca prosa di tante intimistiche narrazioni nazionali, di tanti autori che non hanno proprio nulla da dire e che non sanno neppure come dirlo. Seguendo la brillante conversazione, ci si sente coinvolti e ci si consola: non siamo poi tanto peggio di Gilles e Lisa, anzi siamo uguali.
Éric-Emmanuel Schmitt è un quasi sessantenne, è nato a Lione, ha studiato musica, si è laureato in filosofia a Parigi e ha insegnato all’università di Chambery. Autore di teatro e scrittore di romanzi, autentico poligrafo, rappresentato e tradotto in tutto il mondo (anche in Italia grazie alle Edizioni e/o, pag. 142, euro 9). Chi legge Piccoli crimini coniugali potrà apprezzarne la professionalità (tralascio alcuni strafalcioni perché non saprei proprio a chi attribuirli: lo stampatore? il tipografo?).
Tra il molto che Éric-Emmanuel Schmitt ha scritto, cito soltanto Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, storia in un popolare quartiere parigino di un ragazzo afflitto da un padre depresso, che trova amicizia, saggezza e l’aiuto a sognare in Ibrahim, droghiere arabo e unico arabo in una via popolata da famiglie ebree. Racconto d’ammirevole fraternità e di pedagogico ottimismo, che finì sullo schermo con Omar Sharif nella parte di Ibrahim (regia di François Dupeyron) e che mi ricorda il bellissimo La vita davanti a sé di quel singolare personaggio che fu Romain Gary, ebreo di origine lituane, combattente antifascista, diplomatico dopo la guerra, scrittore (vinse due Goncourt) , marito di Jean Seberg.
Anche La vita davanti a sé divenne cinema grazie a Moshe Mizrahi (e fu premio Oscar nel 1978 come miglior film straniero). Con Gary siamo a Parigi, nella popolare Belleville, la stessa raccontata da Daniel Pennac. Non siamo invece nel mondo di Gilles e Lisa, ma il mondo di Momo (pure il ragazzino protagonista della storia di Gary si chiama Momo), di Ibrahim e di Malaussène ci sembra ben più vitale e interessante.