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Istanti e parole per piccole storie

Autore: Massimo Onofri
Testata: Avvenire
Data: 10 luglio 2009

Quest’anno va forte il racconto, come dimostrano Carraro, Pedullà e Cancogni. Ma anche il reportage che fotografa brani di vita del Belpaese s’impne con Desiati Magrelli e Mari. E nel romanzo spiccano Ravera, Paris e Ferri

Pare che in Italia i libri di racconti si vendano male e che gli editori siano riluttanti a pubblicarli. Eppue, in questi mesi, sono state due raccolte di racconti a impressionarmi: Il gioco della verità (edizioni Hacca, pagina 216, euro 14.00) di Andrea Carraro e Lo spagnolo senza sforzo di Gabriele Pedullà, pubblicato da Einaudi (pagine 188, euro 14). Per motivi diversi, se non opposti: se Carraro mi pare, insieme a Antonio Debenedetti e Cerami, lo scrittore più apprezzato per raccontare, dentro storie di anonima crudeltà, l’involuzione antropologica dell’Italia di questi ultimi decenni, era tempo che non si registrava, tra i giovani dell’età di Pedullà, una tale consapevolezza epistemologica, secondo un’idea del narrare che è anche un’ipotesi del pensare. Ma il libro più bello, quanto a racconti, arriva da un grande vecchio, Mario Cancogni, classe 1916, e una vita che è un capitolo importante della storia della letteratura: ne avete letto molto bene proprio qui, mercoledì scorso, a firma di Fulvio Panzeri. La sorpresa, pubblicata da Elliot (pagine 408, euro 19,50), raccoglie testi scritti tra il 1936 e il 1993, mai raccolti in volume: da «Un pomeriggio d’inverno» a «La vita nuova». Li accompagnano un paio si articoli scritti da Cancogni su “Risorgimento liberale” nel 1948, una bibliografia, una «Biografia di Manlio Cancogni raccontata da lui medesimo», e una bella «Conversazione» dello scrittore col curatore del libro Simone Caltabellotta.

Ha ragione Caltabellotta: questi racconti sono «una combinazione semplice e perfetta di freschezza e luminosità», laddove una prosa tentata dalla poesia, proprio in virtù di tale tentazione, diventa pura e misteriosa epifania della vita. Se vogliamo continuare a muoverci sui territori di una scrittura spuria e beatamente irrispettosa degli obblighi romanzeschi, allora sia benedetta la collana “Contromano” di Laterza. S’era già dato conto qui di due libri curiosissimi, di grande intensità mentale, come Vento forte tra Macedonia e Candela. Esercizi di paesologia (pagine 194, euro 10,00) di Franco Arminio e La vicevita. Treni e viaggi in treno (pagine 106, euro 9,00) di Valerio Magrelli. Vorrei segnalare ora Foto di classe. U uagnon se n’asciot (pp.134, euro 10,00) di Mario Desiati e Filologia dell’anfibio. Diario militare (pp. 240, euro 12,00) di Michele Mari. Potrebbero esserci scrittori più diversi?Eppure, dentro questa collana, e in dialogo tra loro, ci stanno a loro agio: Desiati finalmente impegnato nel reportage sentimentale e scolastico di una Puglia fuor di metafora; Mari, che scrittore sostanzialmente araldico, oltre che sfrenatamente e sontuosamente espressivo, si confronta col servizio militare, quell’«enorme, flagrante demenza (…) che fa del non-senso il proprio unico senso». Sul versante di questa creative non fiction, non posso dimenticare, ma pubblicato da Einaudi, ritorno alla città distratta (pp.232, euro 11,50) di Antonio Pascale, che ripropone, da Caserta, il suo capolavoro (La città distratta, appunto), arricchito di nuovi capitoli: a conferma che esistono ancora, nel meridione, scrittori capaci di raccontarci con originalità di passo, un Sud non convenzionale.

Per gli amanti del romanzo-romanzo, vorrei segnalare un dittico sui non solo plumbei anni ’70: gli ani in cui il privato diventa politico, mentre il politico è vissuto in un modo parossisticamente privato. Questo perché, tra i giovani di quegli anni, alcuni scrittori hanno ormai raggiunto una notevole maturità, riuscendo finalmente a raccontare ciò che è rimasto a lungo irraccontabile, scheletri nell’armadio compresi: a onore o, soprattutto, a disdoro d’una generazione mai maturata, affetta magari da una speciale, spietata, quando non violenta sindrome di Peter Pan. Mi riferisco intanto a Lidia Ravera, con La guerra dei figli, ora migrata a Garzanti (pagine 304, euro 17,60: laddove si narra a specchio la vicenda di due sorelle, l’una finita nella lotta armata, l’altra dentro un processo di disincantata se non cinica normalizzazione. Penso poi al Renzo Paris di La vita personale (Hacca, pagine 368, euro 16,00), il quale, tentato dall’autofiction, in un romanzo esilarante convoca per nome e cognome, e senza pudori di sorta, tutti i protagonisti della Roma letteraria e teatrale d’allora, ritratta nei suoi fallimenti e nel suo infantilismo euforico e dadaista. Chiudo con una nota di malinconia su due romanzi che raccontano la storia di un’anima: Cecilia, di Linda ferri (e/o, pagine 288, euro 18,00) e Stabat mater di Tiziano Scarpa (Einaudi, pagine 148, euro 17,00). Si tratta di due Cecilie, entrambe poco più che adolescenti. La prima, quella si Ferri, che si converte al cristianesimo nel II secolo, colpisce per forza di autenticità; la seconda, che è una violinista che ha a che fare con Vivaldi, impressiona, al contrario, per la sua implausibilità. Curioso destino: la prima, partecipando allo Strega, non è entrata nemmeno in cinquina. La seconda, invece, lo ha vinto.