“Il collare rosso” di Jean-Christophe Rufin è un romanzo ambientato in una cittadina francese e Morlac è un prigioniero, eroe di guerra, “irriducibile oppositore di tutte le gerarchie”. Il racconto prende spunto da una storia vera che l’autore, medico, diplomatico, fondatore di Medici senza frontiere, ha raccolto da Benoît Gysembergh, un giovane e ottimo fotografo che lo ha accompagnato nei suoi viaggi. Dice, infatti, l’autore:
“La storia riguardava suo nonno. Tornato da eroe dalla Prima guerra mondiale e insignito della Legion d’Onore, in un giorno di ubriachezza aveva commesso un’azione inaudita per l’epoca, una trasgressione per la quale era stato arrestato e processato”.
È la torrida estate del 1919 e, Jacques Pierre Marcel Morlac ventottenne eroe della trincea, ha compiuto un’azione che lo ha condotto in carcere e il suo cane Kaiser, che non si muove da fuori della caserma, abbaia di continuo nella piazza deserta. Il giudice militare, Lantier, incaricato del caso viene da Parigi, vuole abbandonare la vita militare per tornare a quella civile. Perché il cane abbaia notte e giorno? E perché il soldato, che è stato insignito di medaglia d’onore, e già considerato eroe, non vuole difendersi e fa di tutto per essere condannato? Il giudice e il prigioniero sono entrambi amanti della lettura e, in modo diverso, sono provati dalla guerra e sulla stessa nutrono dubbi e si interrogano. Lantier si rifiuta di esprimere la sentenza di condanna solo perché questo è il desiderio del prigioniero e inizia un lungo interrogatorio in cui il cane non abbandona mai il suo padrone standogli vicino.
Il tema della fedeltà, quella dell’animale, o della giovane donna che aspetta che Morlac torni dalla guerra, s’intreccia con le vicende umane di altri personaggi e non sempre, lo svolgimento della trama lo dimostra, il principio di fedeltà e lealtà ha un’unica faccia. La figura più leale sembra essere il cane, che non si fa domande, è Morlac stesso a dirlo:
“Era lui l’eroe, ecco quel che ho pensato. Non solo perché mi aveva seguito al fronte ed era stato ferito, no, c’era qualcosa di più profondo, di più radicale. Possedeva tutte le qualità che ci si aspettano da un soldato. Era leale fino alla morte, coraggioso, spietato con i nemici. Per lui il mondo era diviso in buoni e cattivi. C’è un termine per descrivere tutto questo: non aveva alcuna umanità. Ma del resto è un cane... Le stesse qualità, però, venivano richieste a noi, che non siamo cani. Onorificenze, medaglie, menzioni e promozioni servivano a ricompensare comportamenti da animale”.
Un libro ricco di riflessioni e dubbi, scritto con una prosa assai gradevole e che si legge con grande facilità nonostante i personaggi siano complessi e sfaccettati.