Uscito nel 2011 in Francia, Ninfee nere di Michel Bussi, è arrivato solo quest’anno in Italia, grazie a E/o edizioni. Definito un vero e proprio caso editoriale ( è stato tradotto in oltre trenta lingue diverse) oltre ad aver vinto una lunga serie di premi, è entrato di diritto tra i thriller che hanno sconvolto la Francia e dopo averlo letto letto, posso affermare con sicurezza che farà altrettanto anche con l’Italia. L’opera inizia con un incipit che già da sé varrebbe l’intera lettura:
Tre donne vivevano in un paesino. La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza egoista. Il paese aveva un grazioso nome da giardino: Giverny. (…) La prima aveva più di ottant’anni ed era vedova. O quasi. La seconda ne aveva trentasei e non aveva mai tradito il marito. Per il momento. La terza stava per compierne undici e tutti i ragazzi della scuola erano innamorati di lei. La prima si vestiva sempre di nero, la seconda si truccava per l’amante, la terza si faceva le trecce perché svolazzassero al vento
Da qui in poi il lettore viene immerso prepotentemente all’interno di un giallo che, come tutte le storie di questo genere che si rispettino, ha una trama contorta a tal punto da disorientare il lettore in più punti. Conosciuta per essere la patria di Monet, la cittadina ospita anche il famoso laghetto di Ninfee da lui amato e che, come richiama il titolo del romanzo, è l’elemento noir della storia. Il cadavere di Jérôme Morval famoso chirurgo oftalmologo, ricco e “col vizietto” del tradimento, viene rinvenuto infatti con il viso dentro il ruscello fatto costruire proprio da Monet per sfociare nello stagno delle ninfee: è stato pugnalato al cuore e ha il cranio spaccato. In tasca, un indizio ( o messaggio) macabro: una cartolina di auguri di compleanno con una citazione poetica. Il delitto, piomba a Giverny sconvolgendo la routine pigra e tranquilla di questo angolo di Normandia, costringendo l’Ispettore Sérénac e il suo vice ( una sorta di Holmes e Watson d’Oltralpe) a mettere insieme i pochi e contraddittori indizi per ricostruire la vicenda e cercare la chiave del mistero.
Utilizzando un punto di vista multiplo che spazia dall’ispettore alle tre donne presentateci all’inizio, il romanzo è concepito in modo tale da lasciare il lettore costantemente in bilico, con la sensazione di essersi “perso qualcosa” ma non sapere mai cosa. Il punto di vista alternato permette anche di avere una visione a 360° anche se, a mio parere, potrebbe essere un’arma a doppio taglio per il lettore. In alcuni tratti infatti, mano a mano che costituivo una mia ipotesi, mi capitava di tornare indietro nelle pagine e verificare i miei pensieri con questa o quella voce narrante, finendo inevitabilmente per perdere il filo della narrazione. La vita della vittima si incrocia con la passione dell’arte e dell’ambiente – non sempre corretto – dei commercianti e collezionisti d’arte. L’idea di una misteriosa e ipotetica ultima tela che Monet avrebbe dipinto prima della morte, il quadro intitolato appunto “Ninfee nere” non fa solo da sfondo alla vicenda, ma ne è anche il fulcro, dando carattere, pathos e il giusto grado di suspense all’intera vicenda.
Inutile dire che il finale, un magistrale coup de théâtre dell’autore, fa sì che il lettore si trovi spiazzato e inevitabilmente un po’ deluso per non aver capito praticamente nulla. In fondo però, il bello di questo genere è anche questo: fare delle ipotesi, mettere insieme gli indizi proprio come chi sta indagando e immaginare la probabile soluzione del delitto. Nonostante non sia una super esperta del genere, ho sempre pensato che se un autore di gialli/thriller è veramente bravo, lascerà sulla strada indizi “civetta”, che come le molliche di Hansel e Gretel dovrebbero aiutare il lettore, ma camufferà sempre gli indizi importanti a tal punto che solo alla fine – e con necessaria spiegazione – tutta la vicenda abbia un senso.