Pubblichiamo un estratto del romanzo NINFEE NERE di Michel Bussi (Edizioni E/O – Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca).
Le prime pagine di NINFEE NERE di Michel Bussi (Edizioni E/O – Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca)
Nelle pagine che seguono le descrizioni di Giverny sono il più possibile
esatte. I luoghi esistono, tanto l’hotel Baudy quanto il ruscello
dell’Epte, il mulino delle Chennevières, la scuola, la chiesa
di Sainte-Radegonde, il cimitero, rue Claude-Monet, chemin du
Roy, l’isola delle Ortiche e, naturalmente, la casa rosa di Monet
e lo stagno delle ninfee. Lo stesso dicasi dei luoghi circostanti,
come il museo di Vernon, il museo delle Belle arti di Rouen e il
villaggio di Cocherel.
Le informazioni che riguardano la vita, le opere e gli eredi di
Claude Monet sono autentiche, così come quelle che si riferiscono
ad altri pittori impressionisti, in particolare Theodore Robinson
ed Eugène Murer.
I furti d’opere d’arte citati sono fatti di cronaca realmente accaduti…
Tutto il resto è frutto della mia fantasia.
Tre donne vivevano in un paesino.
La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza
egoista.
Il paese aveva un grazioso nome da giardino: Giverny.
La prima abitava in un grande mulino in riva a un ruscello,
sul chemin du Roy; la seconda in una mansarda sopra la scuola,
in rue Blanche-Hoschedé-Monet; la terza con la madre in una
casetta di rue du Château-d’Eau dai muri scrostati.
Neanche avevano la stessa età. Proprio per niente. La prima
aveva più di ottant’anni ed era vedova. O quasi. La seconda ne
aveva trentasei e non aveva mai tradito il marito. Per il momento.
La terza stava per compierne undici e tutti i ragazzi della
scuola erano innamorati di lei. La prima si vestiva sempre di
nero, la seconda si truccava per l’amante, la terza si faceva le
trecce perché svolazzassero al vento.
Insomma, avete capito. Erano tre persone molto diverse.
Eppure avevano qualcosa in comune, una specie di segreto:
tutte e tre sognavano di andarsene. Sì, di lasciare la famosa Giverny,
paese il cui solo nome faceva venire voglia a una quantità
di gente di attraversare il mondo solo per farci due passi.
Sapete naturalmente perché: per via dei pittori impressionisti.
La prima, la più anziana, possedeva un grazioso quadro. La
seconda era molto interessata agli artisti. La terza, la più giovane,
sapeva dipingere bene. Anzi, benissimo.
Strano che volessero lasciare Giverny, vero? Tutte e tre pensavano
che quel paesino fosse una prigione, un gran bel giardino
ma con le inferriate. Come il parco di un manicomio. Un trompel’oeil.
Un quadro da cui è impossibile uscire. In realtà la terza, la
più giovane, cercava un padre altrove. La seconda cercava l’amore.
La prima, la più vecchia, sapeva cose sulle altre due.
Eppure una volta, per tredici giorni e solo per tredici giorni,
le inferriate del parco si aprirono. Per l’esattezza, dal 13 al 25
maggio 2010. Le inferriate di Giverny si sollevarono per loro!
Solo per loro, almeno così pensavano. C’era però una regola
crudele: soltanto una poteva fuggire, le altre due dovevano morire.
Era così.
Quei tredici giorni sfilarono via nelle loro vite come una parentesi.
Troppo breve. Anche crudele. La parentesi si aprì il
primo giorno con un omicidio e si chiuse l’ultimo giorno con un
altro omicidio. Stranamente la polizia si interessò solo alla seconda
donna, la più bella. La terza, la più innocente, dovette indagare
per conto suo. La prima, la più discreta, poté tranquillamente
tenere d’occhio tutti. E persino uccidere!
La faccenda durò tredici giorni. Il tempo di un’evasione.
Tre donne vivevano in un paesino.
La terza era quella con più talento, la seconda era la più
furba e la prima era la più determinata.
Secondo voi, quale delle tre è riuscita a scappare?
La terza, la più giovane, si chiamava Fanette Morelle. La seconda
si chiamava Stéphanie Dupain. La prima, la più vecchia,
ero io.
PRIMO QUADRO
Impressioni
PRIMO GIORNO
13 maggio 2010
(Giverny)
Assembramento
1.
L’acqua limpida del ruscello si colora di rosa a piccoli rivoli,
come l’effimera tinta pastello di un getto sotto il
quale si stia sciacquando un pennello.
«Neptune, no!».
Nella corrente il colore si diluisce, si attacca al verde delle
erbe selvatiche che pendono dagli argini, all’ocra delle radici di
pioppi e salici. Un lieve chiaroscuro slavato…
Non è male.
Tranne che il rosso non viene dalla tavolozza che un pittore
ha lavato nel fiume, ma dal cranio sfondato di Jérôme Morval.
Sfondato di brutto. Il sangue esce da una profonda ferita sulla
parte alta della calotta, un taglio netto, pulito, sciacquato dal ruscello
dell’Epte in cui è immersa la testa.
Il mio cane, un pastore tedesco, si avvicina e annusa. Gli
strillo di nuovo, stavolta con più fermezza.
«Neptune, no! Stai indietro!».
Credo che non ci metteranno molto a trovare il cadavere.
Anche se sono le sei del mattino capiterà presto qualcuno che
va a passeggio o fa jogging, un pittore, un cercatore di lumache…
un passante qualsiasi che si imbatterà nel corpo.
Sto attenta a non procedere oltre. Mi appoggio al bastone.
Davanti a me la terra è fangosa, ha piovuto molto negli ultimi
giorni, le sponde del ruscello sono instabili. A ottantaquattro
anni non ho più l’età di giocare alle naiadi, neanche in un rigagnolo
come quello, largo meno di un metro, di cui metà della
portata è deviata per alimentare il laghetto del giardino di
Monet. Tra l’altro pare che non sia più così, che ormai esista
una trivellazione sotterranea per alimentare lo stagno delle
ninfee.
«Dài, Neptune, continuiamo».
Sollevo il bastone verso di lui per impedirgli di andare a infilare
il muso nel buco aperto nella giacca grigia di Jérôme
Morval. La seconda ferita. In pieno cuore.
«Muoviti! Leviamoci di qui».
Guardo un’ultima volta il lavatoio, proprio di fronte, e continuo
per il sentiero. Niente da dire, è tenuto in maniera impeccabile.
Gli alberi più invadenti sono stati segati alla base e i
fossi laterali liberati dalle erbacce. È pur vero che è un sentiero
frequentato ogni giorno da migliaia di turisti, ci passano carrozzine,
disabili in sedia a rotelle, anziane col bastone. Io!
«Andiamo, Neptune».
Svolto un po’ più avanti, nel punto in cui il ruscello dell’Epte
si divide in due bracci chiusi da una saracinesca e una cascatella.
Dall’altra parte si intuiscono i giardini di Monet, le ninfee, il
ponte giapponese, le serre… Strano, io sono nata qui nel 1926,
l’anno della morte di Claude Monet. Per quasi cinquant’anni
dopo la scomparsa dell’artista quei giardini sono stati chiusi, dimenticati,
abbandonati. Oggi la ruota ha girato e ogni anno decine
di migliaia di giapponesi, americani, russi o australiani attraversano
il pianeta solo per venire a bighellonare a Giverny. I
giardini di Monet sono diventati un tempio sacro, una Mecca,
una cattedrale… A proposito, queste migliaia di pellegrini non
tarderanno a farsi vivi.
Guardo l’orologio. Le sei e due minuti. Ho ancora qualche
ora di tregua.
Proseguo.
Tra i pioppi e gli immensi farfaracci la statua di Claude
Monet mi fissa con uno sguardo cattivo da vicino corrucciato.
Ha il mento mangiato dalla barba e il cranio nascosto da un copricapo
che somiglia vagamente a un cappello di paglia. La base
d’avorio indica che il busto è stato inaugurato nel 2007. Il cartello
di legno piantato lì accanto precisa che il maestro sorveglia
la “prateria”. La sua prateria! I campi, dal ruscello all’Epte e
dall’Epte alla Senna, le file di pioppi, i poggi boscosi mossi
come onde. I luoghi magici da lui dipinti, immortalati a vernice,
inviolabili…
È vero, alle sei del mattino il sito illude ancora. Di fronte a
me si estende un orizzonte vergine fatto di campi di grano, granturco,
papaveri. Ma non voglio raccontare frottole. In realtà
ormai, per quasi tutta la giornata, la prateria di Monet è un parcheggio.
Anzi, per la precisione quattro parcheggi, distribuiti
come petali di una ninfea d’asfalto intorno a uno stelo di bitume.
Alla mia età posso permettermi di dirlo. Anno dopo anno
ho talmente visto trasformarsi il paesaggio! Oggi la campagna
di Monet è una scenografia da ipermercato.
Neptune mi segue per qualche metro, poi parte di corsa
dritto davanti a sé, attraversa il parcheggio, piscia su una staccionata
e continua a correre verso la confluenza tra l’Epte e la
Senna, quel pezzo di terra stretto tra i due fiumi chiamato curiosamente
l’isola delle Ortiche.
Sospiro e proseguo sulla strada. Alla mia età non mi metto
certo a corrergli dietro. Lo guardo allontanarsi e tornare, come
per prendermi in giro. Aspetto a richiamarlo. È ancora presto.
Sparisce di nuovo in mezzo al grano. Ormai Neptune passa il
tempo così, a correre i cento metri davanti a me. A Giverny tutti
lo conoscono, ma non credo siano in molti a sapere che è il mio
cane.
Costeggio il parcheggio e mi dirigo verso il mulino delle
Chennevières. È lì che abito. Preferisco rincasare prima che
sbarchi la folla. Il mulino delle Chennevières è di gran lunga il
più bell’edificio dalle parti del giardino di Monet, l’unico costruito
lungo il ruscello, ma da quando hanno trasformato la
prateria di Monet in campi di lamiere e pneumatici mi ci sento
in gabbia come un animale in via di estinzione che i curiosi vengono
a osservare, spiare e fotografare. Per passare dal parcheggio
al paese ci sono solo quattro ponti, di cui uno attraversa
il ruscello proprio davanti a casa mia. Fino alle sei di sera
sono come circondata. Poi il paese si spegne di nuovo, la prateria
viene restituita ai salici e Claude Monet può riaprire i suoi
occhi di bronzo senza tossire nella barba profumata agli idrocarburi.
Di fronte a me il vento agita una foresta di spighe verde
acqua punteggiate qua e là dal rosso dei papaveri. Vista dall’altra
parte, lungo l’Epte, la scena evocherebbe un quadro impressionista:
l’armonia dei colori permeati dall’arancione del
sole che sorge con appena un tocco luttuoso sullo sfondo, un
puntolino scuro.
Una vecchia vestita di nero. Io!
Sottile nota malinconica.
«Neptune!» chiamo ancora.
Rimango lì a lungo ad assaporare la calma effimera. Non so
quanto, di sicuro vari minuti, almeno finché non arriva un tizio
che fa jogging. Mi passa davanti con l’MP3 ficcato negli orecchi.
Maglietta. Scarpe da ginnastica. È spuntato nella prateria come
un anacronismo. È il primo della giornata a sciupare il quadro,
gli altri seguiranno. Gli rivolgo un cenno del capo, lui me lo restituisce
e si allontana nello sfrigolio di cicala elettronica che gli
esce dalle cuffie. Lo vedo svoltare verso il busto di Monet, la cascatella,
la chiusa. Lo immagino tornare lungo il ruscello stando
anche lui attento a evitare il fango sui bordi del sentiero.
Mi siedo su una panchina e aspetto il seguito. Ineluttabile.
Ancora non ci sono pullman nel parcheggio della prateria
quando la camionetta della polizia si ferma maldestramente sul
bordo di chemin du Roy, tra il lavatoio e il mio mulino, a venti
passi dal corpo annegato di Jérôme Morval.
Mi alzo.
Sono incerta se chiamare un’altra volta Neptune. Sospiro.
Dopo tutto conosce la strada. Il mulino delle Chennevières è lì
accanto. Do un’ultima occhiata ai poliziotti che scendono dalla
camionetta e mi allontano. Torno a casa. Da dietro la finestra
della torre del mulino, al quarto piano, si osserva molto meglio
quello che succede nei dintorni.
E con molta più discrezione.