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NINFEE NERE di Michel Bussi (un estratto)

Autore: Massimo Maugeri
Testata: Letteratitudine
Data: 1 ottobre 2016
URL: https://letteratitudinenews.wordpress.com/2016/09/28/ninfee-nere-di-michel-bussi-un-estratto/

Pubblichiamo un estratto del romanzo NINFEE NERE di Michel Bussi (Edizioni E/O – Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca).

Le prime pagine di NINFEE NERE di Michel Bussi (Edizioni E/O – Traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca)

Nelle pagine che seguono le descrizioni di Giverny sono il più possibile esatte. I luoghi esistono, tanto l’hotel Baudy quanto il ruscello dell’Epte, il mulino delle Chennevières, la scuola, la chiesa di Sainte-Radegonde, il cimitero, rue Claude-Monet, chemin du Roy, l’isola delle Ortiche e, naturalmente, la casa rosa di Monet e lo stagno delle ninfee. Lo stesso dicasi dei luoghi circostanti, come il museo di Vernon, il museo delle Belle arti di Rouen e il villaggio di Cocherel. Le informazioni che riguardano la vita, le opere e gli eredi di Claude Monet sono autentiche, così come quelle che si riferiscono ad altri pittori impressionisti, in particolare Theodore Robinson ed Eugène Murer. I furti d’opere d’arte citati sono fatti di cronaca realmente accaduti… Tutto il resto è frutto della mia fantasia.

Tre donne vivevano in un paesino. La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza egoista. Il paese aveva un grazioso nome da giardino: Giverny. La prima abitava in un grande mulino in riva a un ruscello, sul chemin du Roy; la seconda in una mansarda sopra la scuola, in rue Blanche-Hoschedé-Monet; la terza con la madre in una casetta di rue du Château-d’Eau dai muri scrostati. Neanche avevano la stessa età. Proprio per niente. La prima aveva più di ottant’anni ed era vedova. O quasi. La seconda ne aveva trentasei e non aveva mai tradito il marito. Per il momento. La terza stava per compierne undici e tutti i ragazzi della scuola erano innamorati di lei. La prima si vestiva sempre di nero, la seconda si truccava per l’amante, la terza si faceva le trecce perché svolazzassero al vento. Insomma, avete capito. Erano tre persone molto diverse. Eppure avevano qualcosa in comune, una specie di segreto: tutte e tre sognavano di andarsene. Sì, di lasciare la famosa Giverny, paese il cui solo nome faceva venire voglia a una quantità di gente di attraversare il mondo solo per farci due passi. Sapete naturalmente perché: per via dei pittori impressionisti. La prima, la più anziana, possedeva un grazioso quadro. La seconda era molto interessata agli artisti. La terza, la più giovane, sapeva dipingere bene. Anzi, benissimo. Strano che volessero lasciare Giverny, vero? Tutte e tre pensavano che quel paesino fosse una prigione, un gran bel giardino ma con le inferriate. Come il parco di un manicomio. Un trompel’oeil. Un quadro da cui è impossibile uscire. In realtà la terza, la più giovane, cercava un padre altrove. La seconda cercava l’amore. La prima, la più vecchia, sapeva cose sulle altre due. Eppure una volta, per tredici giorni e solo per tredici giorni, le inferriate del parco si aprirono. Per l’esattezza, dal 13 al 25 maggio 2010. Le inferriate di Giverny si sollevarono per loro! Solo per loro, almeno così pensavano. C’era però una regola crudele: soltanto una poteva fuggire, le altre due dovevano morire. Era così. Quei tredici giorni sfilarono via nelle loro vite come una parentesi. Troppo breve. Anche crudele. La parentesi si aprì il primo giorno con un omicidio e si chiuse l’ultimo giorno con un altro omicidio. Stranamente la polizia si interessò solo alla seconda donna, la più bella. La terza, la più innocente, dovette indagare per conto suo. La prima, la più discreta, poté tranquillamente tenere d’occhio tutti. E persino uccidere! La faccenda durò tredici giorni. Il tempo di un’evasione. Tre donne vivevano in un paesino. La terza era quella con più talento, la seconda era la più furba e la prima era la più determinata. Secondo voi, quale delle tre è riuscita a scappare? La terza, la più giovane, si chiamava Fanette Morelle. La seconda si chiamava Stéphanie Dupain. La prima, la più vecchia, ero io.

PRIMO QUADRO Impressioni

PRIMO GIORNO 13 maggio 2010 (Giverny)

Assembramento

1. L’acqua limpida del ruscello si colora di rosa a piccoli rivoli, come l’effimera tinta pastello di un getto sotto il quale si stia sciacquando un pennello. «Neptune, no!». Nella corrente il colore si diluisce, si attacca al verde delle erbe selvatiche che pendono dagli argini, all’ocra delle radici di pioppi e salici. Un lieve chiaroscuro slavato… Non è male. Tranne che il rosso non viene dalla tavolozza che un pittore ha lavato nel fiume, ma dal cranio sfondato di Jérôme Morval. Sfondato di brutto. Il sangue esce da una profonda ferita sulla parte alta della calotta, un taglio netto, pulito, sciacquato dal ruscello dell’Epte in cui è immersa la testa. Il mio cane, un pastore tedesco, si avvicina e annusa. Gli strillo di nuovo, stavolta con più fermezza. «Neptune, no! Stai indietro!». Credo che non ci metteranno molto a trovare il cadavere. Anche se sono le sei del mattino capiterà presto qualcuno che va a passeggio o fa jogging, un pittore, un cercatore di lumache… un passante qualsiasi che si imbatterà nel corpo. Sto attenta a non procedere oltre. Mi appoggio al bastone. Davanti a me la terra è fangosa, ha piovuto molto negli ultimi giorni, le sponde del ruscello sono instabili. A ottantaquattro anni non ho più l’età di giocare alle naiadi, neanche in un rigagnolo come quello, largo meno di un metro, di cui metà della portata è deviata per alimentare il laghetto del giardino di Monet. Tra l’altro pare che non sia più così, che ormai esista una trivellazione sotterranea per alimentare lo stagno delle ninfee. «Dài, Neptune, continuiamo». Sollevo il bastone verso di lui per impedirgli di andare a infilare il muso nel buco aperto nella giacca grigia di Jérôme Morval. La seconda ferita. In pieno cuore. «Muoviti! Leviamoci di qui». Guardo un’ultima volta il lavatoio, proprio di fronte, e continuo per il sentiero. Niente da dire, è tenuto in maniera impeccabile. Gli alberi più invadenti sono stati segati alla base e i fossi laterali liberati dalle erbacce. È pur vero che è un sentiero frequentato ogni giorno da migliaia di turisti, ci passano carrozzine, disabili in sedia a rotelle, anziane col bastone. Io! «Andiamo, Neptune». Svolto un po’ più avanti, nel punto in cui il ruscello dell’Epte si divide in due bracci chiusi da una saracinesca e una cascatella. Dall’altra parte si intuiscono i giardini di Monet, le ninfee, il ponte giapponese, le serre… Strano, io sono nata qui nel 1926, l’anno della morte di Claude Monet. Per quasi cinquant’anni dopo la scomparsa dell’artista quei giardini sono stati chiusi, dimenticati, abbandonati. Oggi la ruota ha girato e ogni anno decine di migliaia di giapponesi, americani, russi o australiani attraversano il pianeta solo per venire a bighellonare a Giverny. I giardini di Monet sono diventati un tempio sacro, una Mecca, una cattedrale… A proposito, queste migliaia di pellegrini non tarderanno a farsi vivi. Guardo l’orologio. Le sei e due minuti. Ho ancora qualche ora di tregua. Proseguo. Tra i pioppi e gli immensi farfaracci la statua di Claude Monet mi fissa con uno sguardo cattivo da vicino corrucciato. Ha il mento mangiato dalla barba e il cranio nascosto da un copricapo che somiglia vagamente a un cappello di paglia. La base d’avorio indica che il busto è stato inaugurato nel 2007. Il cartello di legno piantato lì accanto precisa che il maestro sorveglia la “prateria”. La sua prateria! I campi, dal ruscello all’Epte e dall’Epte alla Senna, le file di pioppi, i poggi boscosi mossi come onde. I luoghi magici da lui dipinti, immortalati a vernice, inviolabili… È vero, alle sei del mattino il sito illude ancora. Di fronte a me si estende un orizzonte vergine fatto di campi di grano, granturco, papaveri. Ma non voglio raccontare frottole. In realtà ormai, per quasi tutta la giornata, la prateria di Monet è un parcheggio. Anzi, per la precisione quattro parcheggi, distribuiti come petali di una ninfea d’asfalto intorno a uno stelo di bitume. Alla mia età posso permettermi di dirlo. Anno dopo anno ho talmente visto trasformarsi il paesaggio! Oggi la campagna di Monet è una scenografia da ipermercato. Neptune mi segue per qualche metro, poi parte di corsa dritto davanti a sé, attraversa il parcheggio, piscia su una staccionata e continua a correre verso la confluenza tra l’Epte e la Senna, quel pezzo di terra stretto tra i due fiumi chiamato curiosamente l’isola delle Ortiche. Sospiro e proseguo sulla strada. Alla mia età non mi metto certo a corrergli dietro. Lo guardo allontanarsi e tornare, come per prendermi in giro. Aspetto a richiamarlo. È ancora presto. Sparisce di nuovo in mezzo al grano. Ormai Neptune passa il tempo così, a correre i cento metri davanti a me. A Giverny tutti lo conoscono, ma non credo siano in molti a sapere che è il mio cane. Costeggio il parcheggio e mi dirigo verso il mulino delle Chennevières. È lì che abito. Preferisco rincasare prima che sbarchi la folla. Il mulino delle Chennevières è di gran lunga il più bell’edificio dalle parti del giardino di Monet, l’unico costruito lungo il ruscello, ma da quando hanno trasformato la prateria di Monet in campi di lamiere e pneumatici mi ci sento in gabbia come un animale in via di estinzione che i curiosi vengono a osservare, spiare e fotografare. Per passare dal parcheggio al paese ci sono solo quattro ponti, di cui uno attraversa il ruscello proprio davanti a casa mia. Fino alle sei di sera sono come circondata. Poi il paese si spegne di nuovo, la prateria viene restituita ai salici e Claude Monet può riaprire i suoi occhi di bronzo senza tossire nella barba profumata agli idrocarburi. Di fronte a me il vento agita una foresta di spighe verde acqua punteggiate qua e là dal rosso dei papaveri. Vista dall’altra parte, lungo l’Epte, la scena evocherebbe un quadro impressionista: l’armonia dei colori permeati dall’arancione del sole che sorge con appena un tocco luttuoso sullo sfondo, un puntolino scuro. Una vecchia vestita di nero. Io! Sottile nota malinconica. «Neptune!» chiamo ancora. Rimango lì a lungo ad assaporare la calma effimera. Non so quanto, di sicuro vari minuti, almeno finché non arriva un tizio che fa jogging. Mi passa davanti con l’MP3 ficcato negli orecchi. Maglietta. Scarpe da ginnastica. È spuntato nella prateria come un anacronismo. È il primo della giornata a sciupare il quadro, gli altri seguiranno. Gli rivolgo un cenno del capo, lui me lo restituisce e si allontana nello sfrigolio di cicala elettronica che gli esce dalle cuffie. Lo vedo svoltare verso il busto di Monet, la cascatella, la chiusa. Lo immagino tornare lungo il ruscello stando anche lui attento a evitare il fango sui bordi del sentiero. Mi siedo su una panchina e aspetto il seguito. Ineluttabile.

Ancora non ci sono pullman nel parcheggio della prateria quando la camionetta della polizia si ferma maldestramente sul bordo di chemin du Roy, tra il lavatoio e il mio mulino, a venti passi dal corpo annegato di Jérôme Morval. Mi alzo. Sono incerta se chiamare un’altra volta Neptune. Sospiro. Dopo tutto conosce la strada. Il mulino delle Chennevières è lì accanto. Do un’ultima occhiata ai poliziotti che scendono dalla camionetta e mi allontano. Torno a casa. Da dietro la finestra della torre del mulino, al quarto piano, si osserva molto meglio quello che succede nei dintorni. E con molta più discrezione.