Ultimo giro al Guapa è il racconto di una vita in bilico sul filo della liceità. Saleem Haddad narra di un giovane di nome Rasa, in una capitale mediorientale ignota, percorsa dal fremito della Primavera araba. Rasa è un attivista, un borghese. Un omosessuale che di giorno lavora come interprete e di notte si divide tra il Guapa, un locale underground nel cui seminterrato si radunano clandestinamente gay e lesbiche della città, e il suo amante segreto, Taymour, che fa entrare nella propria camera da letto fino al giorno in cui la nonna li scopre. Nello stesso momento il suo miglior amico Maj, star drag queen del Guapa, viene arrestato all’interno di un cinema. La combinazione disastrosa dei due eventi fa crollare gli equilibri. Rasa è costretto a interrogarsi sulla sua vita, sul destino del suo paese, sull’intensa stagione delle proteste di piazza, prima che la repressione del regime porti all’emergere del fondamentalismo islamico.
Ho molte case diverse
«Per la mia omosessualità ho subito più discriminazioni in Europa, che in Medio Oriente». Una denuncia esplosiva quella di Saleem Haddad, scrittore londinese di origine arabe, al suo esordio sulla scena letteraria internazionale con Ultimo giro al Guapa (Edizioni e/o). Nel romanzo, Haddad spiega cosa significa essere gay in un paese arabo. Ma c’è anche dell’altro: la miscela fra culture, la denuncia sociale. Il piacere di raccontare una storia. «A volte non sono sicuro di avere un paese d’appartenenza. O meglio, ho molte case diverse». L’autore si descrive così, e le ascendenze confermano questa sua condizione dell’anima: padre palestino-libanese, madre metà irachena e metà tedesca. Non sono da meno i visti sul passaporto: prima giovinezza trascorsa tra Kuwait, Giordania e Cipro, studi in Canada, residenza – momentanea – nel Regno Unito. Il New York Times lo ha inserito tra i cinque scrittori arabi più promettenti della contemporaneità.
Come ha reagito la comunità musulmana LGBT agli eventi di Orlando?
Molti non hanno avuto nemmeno il tempo di piangere, perché subito i media hanno attaccato l’Islam. Altri hanno sfruttato l’occasione per parlare di omofobia in alcune comunità musulmane. È stato interessante osservare questo scambio, che ha mostrato la diversità delle voci all’interno della comunità musulmana LGBT.
È stato davvero un episodio di omofobia?
Assolutamente sì. Allo stesso tempo, però, penso che dovremmo guardare un po’ più in profondità. L’omofobia non si limita alla comunità musulmana; è ovunque, nelle leggi e nei discorsi, sia negli Stati Uniti che in Europa. E alla base di questa omofobia c’è una mascolinità tossica e violenta che ha bisogno di essere messa in discussione.
Saleem, nel romanzo non nomina mai il paese in cui è ambientata la storia. Lo fa per tutelare la sua sicurezza o per sottolineare che tutti i paesi del mondo arabo, nel mancato riconoscimento dei diritti degli omosessuali, sono allo stesso punto?
Ho voluto lasciare il paese senza nome per una serie di motivi: primo, desideravo creare una storia dal valore metaforico. Ma volevo essere anche più ambizioso, sviluppando un parallelo tra rivoluzione politica e risveglio sessuale, esplorando le similitudini inquietanti del modo in cui paesi, società e famiglie sono malamente governate. In realtà, è stato anche un modo per disorientare il lettore: siamo in Egitto? In Libano? Libia? Giordania? Ho raccolto elementi di diversi paesi, mischiando pezzi di geografia urbana di diverse città arabe, per far sì che il lettore avesse l’impressione di camminare lungo una strada del Cairo e, un istante dopo, di essere seduto a bere un tè, in un bar a Beirut. Non nominare un paese in particolare mi ha anche garantito una certa sicurezza. La stessa che volevo per l’intera comunità LGBT. Poi non volevo scrivere un saggio, che delineasse le dinamiche dei gruppi LGBT in un paese determinato. Però, leggere il mio romanzo e dedurre che tutti i paesi arabi trattano gli omosessuali allo stesso modo, significherebbe fraintenderlo: si tratta di «fiction», non di un documentario. E la bellezza della finzione è che posso creare il mio mondo, un passo alla volta.
Secondo lei perché anche i paesi cosiddetti «moderati», che non fondano la loro legislazione sulla sharia e sui precetti religiosi, non prendono in considerazione i diritti degli omosessuali?
La cosa divertente è che molte delle leggi anti-gay, nel mondo arabo e in Africa, sono state mutuate dal sistema europeo, soprattutto inglese e francese. In realtà, basandoci sui testi costituzionali occidentali, potremmo dire che questo genere di leggi non ha avuto origine nel mondo islamico.
Nel suo libro, i protagonisti prendono parte a manifestazioni di protesta e cortei che potrebbero sembrare quelli di Piazza Tahrir, o di Tunisi tra il 2011 e il 2012. Lei, come loro, era in strada a protestare in quegli anni? Cosa si aspettava dalla Rivoluzione?
Non ho partecipato alle manifestazioni. A ogni modo, penso che ci sia stata una sorta di santificazione di quella fase. C’era già stato tanto, prima di allora: anni e anni di attivismo, che hanno portato a quella svolta. Anche durante la Rivoluzione: la strada era «potente», ma c’era molto altro al di fuori delle piazze. Io ero a Londra in quel periodo e ho dato il mio contributo come potevo: scrivendo. Ho partecipato a riunioni politiche e ho incoraggiato i leader occidentali ad abbracciare le proteste.
Dopo le Primavere arabe, la grande delusione è derivata dall’assenza di una svolta effettiva, basata sui diritti e sull’uguaglianza tra i cittadini. Cosa si poteva fare, che non è stato fatto? Cosa si può fare ancora?
In un certo senso, siamo stati tutti degli ingenui a supporre che un cambiamento radicale fosse possibile in così breve tempo. O che, una volta dato inizio agli eventi, saremmo stati in grado di controllarne l’esito. Tuttavia, le Rivoluzioni hanno iniziato un processo inarrestabile, anche se ci troviamo in un periodo particolarmente buio. La maggior parte dei paesi sono nel bel mezzo di una guerra civile, o in preda all’autoritarismo, che utilizza la minaccia della guerra per mantenere le popolazioni in riga. Le prospettive non potrebbero essere peggiori. Ma è proprio in momenti come questo che subentra una fase di post-pessimismo. È fondamentalmente. Finché ci sarà anche una sola persona là fuori che s’impegna per migliorare le cose, dobbiamo sperare che tutto migliori.
Venendo a casi specifici, in Tunisia sono previsti tre anni di carcerazione per il reato di sodomia. Cosa dovrebbe pretendere il popolo tunisino?
La società civile tunisina si è già attivata per abolire questa legge. Non posso fare altro che essere solidale con loro.
Lei vive in un paese diverso da quello in cui è nato. È stata una scelta obbligata?
No, ma credo che il mio caso sia abbastanza singolare: mi sento a casa in molti luoghi diversi e al tempo stesso non c’è un luogo in grado di riprodurre il senso di casa, proprio perché ho viaggiato molto e sono un ibrido di culture. Così, anche se vivo a Londra da quasi dieci anni, devo tornare regolarmente in Medio Oriente. È un processo fluido: la decisione di rimanere o partire non è mai bianca o nera. Mi sento in una via di mezzo, per tutto il tempo.
Nei paesi in cui ha vissuto, ha mai subito discriminazioni dirette o indirette per il suo orientamento sessuale?
Trovo difficile rispondere: non sono sicuro di come quantificare la discriminazione. Se mi chiede se sono mai stato attaccato per la mia sessualità, nel mondo arabo, devo dire di no. Ma vengo dalla classe media, il che significa avere maggiore protezione. Quindi, in un certo senso, no. Non ho affrontato la discriminazione, ma non ho potuto vivere in modo autentico. E questo non solo a causa della mia sessualità: non potevo esprimermi senza paura per ragioni politiche. Il paradosso è che ho sperimentato la ghettizzazione, sia per il fatto di essere arabo che omosessuale, qui in Europa. Il che dimostra ancora una volta che la discriminazione è ovunque.
Il suo romanzo è scritto in inglese. Questa scelta non rischia di tenere fuori una fetta di popolo arabo che potrebbe avvicinarsi, attraverso di lei, a questo tema spinoso?
Nel mondo arabo, per strani motivi, scrivere e parlare in inglese ti offre un po’ più di protezione. Ti trasforma in una maschera. Meglio: ti pone in una condizione di segretezza. A parte questo, per quanto mi riguarda, sono cresciuto parlando inglese con mia madre e leggendo libri nella stessa lingua. Così, quando è arrivato il momento di scrivere, soprattutto di un argomento così delicato, l’inglese era lo spazio che sentivo più sicuro. Ma sto per pubblicare la traduzione in arabo del manoscritto, perché uno dei miei obiettivi è che nel mondo arabo si legga di più.
Per il momento, qual è stata la risposta del pubblico? Ha ricevuto minacce per ciò che ha scritto?
La risposta è stata incredibilmente positiva, anche da parte di persone che vivono in Medio Oriente. Naturalmente, non essendo ancora disponibile la versione in arabo, non so se ci saranno anche risposte di altro tenore. Nel frattempo m’interessa raggiungere il maggior numero di lettori possibile, proprio perché spero, con le mie riflessioni, di contribuire al dibattito internazionale sul tema.
L’impressione è che lei intenda la condizione degli omosessuali come metafora della situazione in cui vivono, in alcuni paesi, le donne, i dissidenti politici e i giornalisti. È così?
Assolutamente sì. Il fatto che il mio romanzo sia incentrato su un protagonista gay non lo rende un romanzo gay: leggere Ultimo giro al Guapa come un semplice libro sull’omosessualità sarebbe perdere di vista i grandi temi che la narrazione esplora: la famiglia, la rivoluzione, l’identità, la classe sociale, il desiderio. Sono tutte questioni interconnesse. Spero che la gente possa tracciare un parallelo e comprendere come vergogna, oppressione e rivoluzione impattino su persone diverse, in modi diversi. Sia a livello personale che sociale, e politico.