Eric-Emmanuel Schmitt è geniale.
Uno di quegli autori con uno stile ben delineato e con una costante voglia di cimentarsi con lavori improbabili - proprio per questo sopra le righe - e di grande impatto mentale e, perché no, anche fisico.
Non posso di certo aspettarmi che mi si creda sulla parola, considerato che affermare la genialità di qualcuno è un atto che necessita una prova concreta e degna di essere presa come tale, ma vorrei chiedervi di soffermarvi due minuti e lasciarmi spiegare il perché io sia arrivato a quest'uscita arcisicura.
Vero è che non è mia abitudine scrivere di romanzi, ma ciò di cui sto per parlare può benissimo annoverarsi tra i titoli cervellotici che, comunque, partono da un'idea di base semplice e al contempo dura da digerire.
Il libro in esame è La parte dell'altro, del suddetto autore, edito da Edizioni e/o.
Se vi chiedessi cosa è bene e cosa è male, sapreste darmi una risposta unanime? Ho le ragioni per credere che questo non possa accadere, dato che si tratta di un concetto piuttosto soggettivo e/o comunque pervaso da troppe variabili. Per me il male assoluto potrebbe essere mettere il parmigiano sulla pasta col tonno, mentre tra di voi potrebbe annidarsi un cuore impavido che invece adora farlo e ne resta anche deliziato. Chi è il mostro? In realtà è come se fossimo due mostri! Io ai suoi occhi, lui ai miei.
Ecco, Schmitt ha deciso di indagare questo dualismo terrificante, convinto che il male possa essere parte di ognuno di noi, in maniera decisamente più intelligente di me e sicuramente con una certa audacia e sfrontatezza: S. propone un parallelismo interessante tra la figura storica di Hitler e un Adolf H. fittizio come sua controparte buona.
Partendo dall'otto ottobre del 1908, giorno in cui Hitler venne respinto all'Accademia di Belle Arti di Vienna, l'autore racconterà le vicende di colui che divenne lo spietato dittatore focalizzandosi non tanto sulla ricostruzione storica del Terzo Reich, bensì sul retroscena composto dalla personalità, dalla sessualità, dai sogni e bisogni, dagli affetti nutriti e no di un individuo che cerca in ogni modo di incarnare la figura dell'eroe nietzschiano. A questa realtà, S. lascerà correre la vita parallela di un uomo - Adolf H. - che lo stesso otto ottobre supererà i test di ammissione all'Accademia, che diventerà un pittore disgustato e turbato fin nel profondo dalla Grande Guerra e che, trasferitosi a Parigi, entrerà in contatto con le avanguardie artistiche di Montparnasse, sposerà un'ebrea americana e morirà in una pacifica Santa Monica.
Se dovessi considerare questo incipit come presupposto innegabile di un possibile capolavoro, mentirei un po'. In effetti, un libro tale potrebbe già di per sé dare adito a congetture e dibattiti interessanti e di vario tenore, ma ciò non basta per additarlo come perfetto. Allora perché ho tanto accennato alla genialità dell'autore?
Innanzi tutto perché un romanzo di oltre 450 pagine è uno scrigno che può celare la più grande idiozia del secolo oppure l'esatto opposto: in questo caso abbiamo di fronte un raro esempio di ottima scrittura ed un intreccio degno di essere chiamato tale. In seconda analisi non è affatto un libro noioso e, sicuramente, solletica costantemente il lettore che, in un modo del tutto incontrollato, sente il bisogno di andare avanti nella lettura per continuare a confrontarsi con i due personaggi chiave.
Mi soffermerei adesso a parlare della valenza che Hitler e Adolf H. assumono in un climax crescente all'interno del romanzo.
Hitler è più di quello che conosciamo noi, il mostro. Hitler è prima di tutto un uomo, un uomo con delle pulsioni, dei pensieri, una personalità labile. Hitler è un uomo cresciuto nella miseria e nel fallimento, uno che per sopravvivere ha dovuto crescere un ego smisurato e che ha dovuto credere che tutto ciò che stesse passando avesse un senso. Hitler è un uomo debole, uno che nella vita voleva essere un pittore o al massimo un architetto, ma cui è stata preclusa quella strada. Il contesto in cui vive, le persone con cui viene in contatto, il suo continuo ricercare una figura materna piuttosto che un partner sessuale lo hanno avvicinato, per sfinimento e allo stesso tempo per necessità, ad una scena politica in cui si è scoperto un oratore micidiale, che, nonostante fosse del tutto incapace di parlare davanti alla gente, aveva trovato nell'odio e nell'odio verso qualcosa la verve necessaria a superare la sua debolezza. Da lì a diventare un problema ed uno spauracchio mondiale il passo è breve: l'ascesa del partito nazista, disegnato poi su sua misura, sancisce la massima espressione del Rienzi, protagonista del dramma in cinque Atti del compositore tedesco Wagner, opera su cui Hitler sembra aver riposto ogni sua speranza, considerandola la strada maestra, la sua strada maestra, come se il suo destino fosse già scritto e, in quel caso, scritto e suonato.
Adolf H., di contro, non appare come l'esatto opposto di Hitler, ma presenta un processo di crescita differente pur mantenendone i tratti di personalità comuni. Adolf H. vive la sua carriera accademica con alti e bassi, facendo i conti con i problemi psicologici derivanti dalla perdita della madre per tumore al seno e col tentativo, poi a buon fine, di superarne il trauma. Come persona dall'animo instabile si rifugia su legami puramente sessuali e coltiva un animo da artista decadente che vede la sua realizzazione solo dopo l'esperienza diretta nella Grande Guerra come soldato: per sua fortuna uscirà illeso dal conflitto, ma ne resterà turbato per tutto il resto della sua vita. Sarà frutto della barbarie la sua ascesa professionale e sarà l'odio per la guerra a dargli l'ispirazione artistica che da sempre, dal primo giorno d'accademia, cercava. La sua vita non è per nulla "rose e fiori" come ci si potrebbe aspettare. Sposare un'ebrea americana non si configura come un antitesi all'Hitler storico, bensì risulta essere semplicemente un plausibile e contestualizzato "come sarebbe potuta andare". Questo espediente viene reiterato dall'autore non soltanto riguardo la sfera personale del suo personaggio, ma anche sulla sfera politica, culturale e geopolitica di una Germania e di un mondo che non ha dovuto avere a che fare con un dittatore squilibrato quale Hitler.
Interessante è la struttura del libro: ad ogni capitolo in cui parla e si parla dell'Hitler storico, ne segue uno in cui la scena passa su Adolf H. Questo meccanismo, da un lato, conferisce al romanzo un ritmo che ci impedisce di fermarsi nella lettura, perché è come leggere due romanzi contemporaneamente, uno di tipo storico, l'altro storicamente ambientato; dall'altro ci offre un continuo parallellismo tra i due personaggi, mostrandoci la loro evoluzione durante lo scorrere dello "stesso" tempo e degli "stessi" eventi, in un continuo come sarebbe potuto essere se.
Ad ogni modo, ritengo che l'aspetto geniale dell'opera stia al di là di ciò che viene raccontato e di come viene raccontato, bensì alberga tutto intorno alla figura storica di Hitler, anzi, per meglio dire, a ciò che per ognuno di noi è Hitler: un taboo. Come lo stesso autore ci riferisce alla fine del libro, circa il modo in cui ha lavorato prima di partorire la sua opera definitiva, ciò che facciamo non è altro che considerarlo un mostro, additarlo, combatterlo mentalmente in un modo durissimo, credendo che relegandolo al ruolo di pazzo ci possa rendere immuni. Parlare di Hitler sembra qualcosa da cui dover sfuggire per non provare brividi, per evitare di riversare odio, per non voler affatto fare i conti con qualcosa di tanto forte e questo ci spinge, in maniera incontrollata, a considerarlo tanto distante da noi. Eppure secondo Schmitt è proprio questo il grande errore: il costruire un nemico cui poter puntare il dito, rendendolo altro rispetto a se stessi e, per questo, sicuramente negativo e orripilante non è per niente dissimile dal meccanismo psicologico che portò Hitler all'olocausto. S. ci spinge dunque ad andare oltre, all'analizzare e far conoscere, al non cadere all'ovvio, a superare quanto più possibili gli errori umani ed umanitari compiuti in nome di una purezza fittizia ma necessaria a tenere in piedi l'ego smisurato di una persona psicolabile poi diventata uno spietato dittatore.
Se l'intento di Schmitt fosse quello di smuovere le coscienze, credo che almeno con la mia vi è riuscito pienamente. E la vostra?