In una delle struggenti fotografie di Francesca Woodman, è raffigurato l’interno di una casa. Detriti qua e là, una ragazzina sta seduta per terra come fosse cascata in un luogo dell’abbandono. L’immagine è mossa, sopra di lei la finestra è invece netta, spalancata. La luce è fortissima. Non si poteva scegliere foto più appropriata di questa per la copertina di un’opera di Elena Ferrante.
A tredici anni dalla prima edizione (che si componeva di scritti dal 1991 al 2003) e a nove dalla seconda che portava in appendice un aggiuntivo blocco denominato «Tessere» (concernente ulteriori materiali dal 2003 al 2007), La frantumaglia (e/o, pp. 373, euro 19) esce adesso in una versione ampliata che, ai due nuclei originari che già si conoscevano, ne aggiunge un terzo.
L’officina letteraria e di pensiero di Elena Ferrante – di cui ha scritto sulle pagine di questo giornale Laura Fortini – assume ora una fisionomia più articolata, andando incontro non solo a chi in questi ultimi anni (in particolare dopo la pubblicazione del ciclo dell’Amica geniale) ha imparato ad amarla ma che corrisponde a una esigenza di ulteriore chiarezza.
La selezione delle lettere e delle interviste è stata operata in un vasto orizzonte di attenzione mediatica che ha reso la figura e il nome di Ferrante di rilievo internazionale.
Parola in apparenza bislacca, «frantumaglia» è per Ferrante sineddoche di un lessico famigliare che si affaccia sul dolore dell’infanzia e di cui sono provviste tutte le protagoniste di cui ha scritto in questi anni. Il termine fa la sua comparsa in una lunga lettera scritta nel 2003 e indirizzata alla sua editrice Sandra Ozzola; disamina lunga e complessa che si estende per circa 70 pagine, rappresenta l’arcipelago ineludibile per chi abbia in mente di interrogarsi intorno ai prodromi concettuali e politici delle sue narrazioni.
I significati introdotti e discussi da Ferrante sono nell’ordine di un argine difficile da sorvegliare una volta per tutte e che tuttavia si desidera collocare, ecco perché il corpo (femminile), la relazione madre-figlia e la forza di un sentimento che inasprisce il conflitto tra la durata e la rammemorazione interiore. Se la stessa scrittrice si definisce «lettrice che dimentica velocemente tutto quello che legge», ha frequentato per esempio Elsa Morante, Melanie Klein, Luce Irigaray, il pensiero della differenza sessuale italiano (a cui è deliberatamente grata) ma anche Walter Benjamin, Madame de la Fayette, Clarice Lispector, Carla Lonzi.
Le prime due sezioni, relative a frammenti, carteggi, interviste e lunghe riflessioni in forma di lettera, in questa ultima e nuova sezione trovano un altro passo che si inarca fino alla tetralogia. In alcuni casi, come quello comparso sulla Paris Review nella primavera del 2015, la stesura è più ampia di quella già pubblicata. Non si tratta quindi di una semplice rassegna di ciò che è già disponibile ma in alcuni casi di utili traduzioni di testi (soprattutto quelli apparsi in testate internazionali) di difficile reperibilità.
Tra i vari temi affrontati vi è anche il femminismo che ha consentito a Ferrante di scavarsi dentro grazie alla pratica dell’autocoscienza, «è stato il pensiero femminile a bonificarmi lo sguardo. È nel confronto anche duro tra donne che mi è sembrato di capire che per scrivere non bisogna distanziare i fatti, ma anzi accorciare le distanze fino all’insopportabile. Tuttavia non scrivo per mettere in scena un’ideologia, scrivo per raccontare senza mistificazioni quello che so». Dall’Inghilterra al Brasile, la cartografia della ricezione di Elena Ferrante si mostra allora mobile e riesce a parlare a tutte e tutti. Perché il linguaggio è quello della realtà e dell’intelligenza relazionale, mentre il tremito quello di una casa spoglia in cui si casca nell’abbandono.