Michel Bussi con “Ninfee nere” (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, E/O) ingaggia con il lettore una partita a poker sin dalla prima riga:
Tre donne vivevano in un paesino
Non un paesino qualsiasi, ma Giverny, immortalato da Monet, ultimo ritiro del pittore e sfondo del laghetto di ninfee più famoso al mondo. Leggenda vuole, o almeno è quello che vuole farci credere Michel Bussi, che il pittore come presagio della sua morte abbia dipinto un ultimo quadro di ninfee: nere. Quel quadro è sulla parete della torre del mulino delle Chennevières a Giverny, apparentemente abbandonato, ma che le voci dei bambini sussurrano sia abitato da una strega. Bussi avverte il lettore che il mulino è in realtà abitato da una vecchia, a tratti voce narrante del romanzo, che sfuma in una terza persona impercettibile e che osserva da un punto di vista privilegiato tutto quello che accade:
il torrione offre almeno un vantaggio: in tutta Giverny non esiste miglior posto d’osservazione. Dal mio nido d’aquila domino il ruscello dell’Epte, la prateria fino all’isola delle Ortiche, i giardini di Monet, chemin du Roy fino alla rotonda…
è il mio punto panoramico, certe volte ci rimango per ore.
Ho disgusto di me stessa.
Chi l’avrebbe mai detto che sarei diventata così, una megera che passa la vita dietro un infisso grigio a spiare vicini, sconosciuti e turisti?
Uno dei fascini indiscussi di “Ninfee nere” è l’ambientazione: precisione topografica, uso coloristico della scrittura, pennellate di parole per descrivere i luoghi cari a Monet, inserzioni della biografia del pittore e degli artisti a lui più legati che creano l’atmosfera in cui si inseriscono le vicende.
Ed è come passeggiare ora come turisti, ora come appassionati dell’opera di Monet, ora come cittadini tra le strade e i luoghi, che l’arte ha innalzato a luoghi dell’anima e dei sentimenti.
Un famoso oftalmologo parigino, originario di Giverny, dove era tornato a vivere acquistando la più bella villa del paese, viene trovato ucciso in una strana postura sulle rive dell’Epte. La posizione collega l’omicidio a una disgrazia di molti anni prima: un ragazzo di undici anni caduto nello stesso punto e trovato con la stessa ferita al cranio e nella stessa innaturale posizione. E nei pressi una bimba Fanette denuncia alla mamma di aver trovato morto il suo amico pittore, un vecchio americano amante di Monet. Che collegamento c’è tra questi tre diversi fatti di sangue?
Michel Bussi conduce la narrazione con la spavalderia di un giocatore di poker che sa di avere tra le mani le carte più alte, e che difficilmente potrà essere superato dall’intuito del lettore, al quale si diverte a fornire degli indizi che valgono come assi, a partire dall’esergo:
Con Monet non vediamo il mondo reale, ne cogliamo le apparenze (F.ROBERT-KEMPF, L’Aurore, 1908)
Un romanzo di apparenze, in cui l’ingranaggio narrativo funziona alla perfezione e si accompagna al piacere di inoltrarsi nella vita e nella poetica di un maestro come Monet. Un giallo basato sulle impressioni e sulle sensazioni, in cui la coppia dell’ispettore Sérénac e del suo vice Bènavides, occitano l’uno normanno l’altro, diversi in tutto (ma è proprio la diversità a rendere da una parte fertile il confronto delle loro supposizioni, dall’altra a cementare la loro amicizia e collaborazione, e infine a divertire il lettore perché da essa nascono i tic e le scene più divertenti e mosse delle indagini) si muovono su due binari opposti: delitto passionale per l’ispettore (ma quanto è lucido in questa sua convinzione?), delitto legato alla scomparsa di un bambino o alle opere d’arte per il vice. Un tris di assi che Bussi fornisce al lettore, a cui nelle ultime pagine aggiunge il quarto asso, fondamentale e definitivo, che riguarda la vecchia del Torrione e la verità che nasconde.
Ma a questo punto, quando il lettore è lì a rimirare il suo poker d’assi, Bussi cala sul tavolo la Scala Reale, fornendo quella successione e logicità degli eventi, che è la trovata geniale e straordinaria di “Ninfee nere”, e che ruota intorno al mito di questo quadro e alla figura di Monet.
La vittoria spetta, dunque, allo scrittore che con “Ninfee nere”, senza calcare i toni del genere, ma anzi distaccandosene con divertimento e sagacia, regala ai lettori, non solo di noir, un romanzo composito, finemente strutturato, in cui sono proprio gli “attrezzi” dello scrittore che mischiano i colori dei generi letterari, confondono le categorie spaziali e temporali, e conducono nel mondo proprio dei libri in cui realtà e finzione si confondono, come pennellate d’artista, per un quadro in cui è il mistero della vita, con la sua ferocia e occasioni perse, il vero soggetto, oltre quello reale, proprio come accade con l’infinita serie delle Ninfee di Monet.