In esergo a Trilogia sporca dell’Avana di Pedro Juan Gutiérrez, pubblicato nel 1999, inedito in patria ed esclusiva italiana E/O, c’è un estratto da Le città invisibili di Italo Calvino che comincia così: “Le città, come i sogni, sono fatte di desiderio e di paure”. Trovai la cosa assai curiosa, anche perché ero arrivato a quell’oggetto battendo tutt’altri sentieri, alla ricerca di un nuovo Bukowski (chiaro che passerò la vita senza trovarlo, di Chinaski ce n’è uno solo) e di una Cuba che i miei occhi, o dovrei dire la mia testa, non erano stati in grado di vedere.
C’ero andato poco tempo prima, in vacanza nel 1995, stesso anno in cui è ambientato il romanzo. Io ventenne pieno di sogni e ideali, critico per indole ma ancora militante; il mito di Cuba che aveva, su di me come su molti, un ascendente assai particolare: la Rivoluzione, il Che e Fidel, il comunismo versione Caraibi ma anche la musica, la Tropi-Cola, “Cuba sì Yankees no” e così via. Era giusto, era bello, era normale vivere così, tutto doveva ancora cominciare quando la giovinezza e in qualche modo la vita, il fuoco, stavano già finendo — ma i sogni erano scritti, più instradati di quelli di adesso, la mente meno libera, il passo più deciso e solenne ma in realtà più prevedibile; i miei occhi, per l’appunto, più bendati. Pedro Juan, un po’, me li avrebbe aperti.
Avevo passeggiato i suoi quartieri, le sue strade, insieme a due amici che si sarebbero rivelati la peggiore compagnia per il viaggio. O meglio, due bravi ragazzi ma uno l’opposto dell’altro: il pauroso che si muoveva soltanto in luoghi raccomandati dalla guida turistica e lo spaccone che si fece fottere comprando sigari di cartone nei sottoscala; il bolscevico che (ancor più di me) giustificava ogni stortura e il bohémien che pagava in dollari il sesso che molte, troppe ragazze, avrebbero offerto per una volgarissima t-shirt. Io me ne stavo nel mezzo a godermi gli aspetti di quella città (e della società cubana) che avevo voglia di vedere e a tentare un armistizio tra i due compari — troppo giovani e troppo lontani da casa per lasciar esplodere tutto e prendere ognuno la propria via.
Pedro Juan si sarebbe preso gioco di noi. Ci avrebbe reputato troppo bianchi, troppo bolsi, troppo italiani, troppo coglioni. Avrebbe tentato di rivenderci una monetina celebrativa del Che da una parte, qualche aragosta di contrabbando dall’altra, e ci avrebbe abbindolato comunque. Ci avrebbe fatto ficcare il naso dentro qualche casa lercia e rabberciata male dell’Avana vecchia, nella disperazione e nella follia, tra gente che impreca e maledice il governo e scopa e si mena a ogni ora del giorno e della notte — facendo saltare ogni convinzione, ogni pregiudizio. Mi avrebbe strappato i romanzi di Hemingway (che peraltro dice di amare, mentre Bukowski gli pare “Troppo pessimista e pieno di tristezza alcolica”) dalle mani, ne avrebbe fatto coriandoli: niente mojito alla Bodeguita del Medio, niente daiquiri al Floridita, il rum del popolo è imbevibile, un getto di piscio acido dal barile alla bottiglia, un timbro sulla tessera del razionamento e via.
Siamo nel prolungato período especial (cominciato con il crollo dell’Unione Sovietica) che non passa mai, l’embargo statunitense stringe le sue maglie e i banchi dei mercati sono vuoti, mezze botteghe chiuse, la benzina non si trova, la gente scambia di tutto per strada e chi può si trascina in campagna per comprare un po’ di formaggio dai contadini, qualche pezzo di manzo da rivendere all’Avana. Pedro Juan se ne sta perlopiù spaparanzato a bere (“senza un cazzo da fare”), chiacchierare, guardare le donne. Si alza perlopiù per inseguirne una o barcamenarsi di tanto in tanto, come tutti, inventandosi qualcosa per vivere, legale o meno che sia. Scommesse, contrabbando, piccoli furti, la sua Avana è un’isola nell’isola, un coacervo di ingegno, disagio, spensieratezza e malinconia, con il pozzo della pazzia sempre lì, a un passo, pronto a inghiottirti. È accarezzata dal sole salvifico dei Caraibi eppure c’è un’afa asfissiante che accresce la smania di fuggire; quando piove può farlo fin troppo, giorni di allerta uragano e altri di panico per il razionamento dell’acqua, rubinetti che non concedono una goccia, energia elettrica a singhiozzi. E c’è il carcere con le sue bocche nere sempre aperte, i poliziotti che sfoderano le pistole ma anche i loro uccelli, pronti a masturbarsi spiando chi scopa per strada o con le finestre aperte.
Perché c’è ovviamente tanto sesso in questo come in altri libri di Pedro Juan (ricordo bene Il re dell’Avana e Animal tropical, il primo pubblicato a Cuba), come pare esserci in tutta l’Avana, in ogni angolo dell’isola. Sesso felice e distratto, leggero, festoso, naturale come ad altre latitudini non potrà mai esistere eppure anche drammatico, avvilente, fulcro di tragedie umane, monito di morte. Ci sono donne che con Pedro fanno l’amore come una rumba, come una festa, altre che lo minacciano, mogli e figli abbandonati sulla via che tornano a presentare il conto. Ci sono le jineteras, prostitute “non professioniste” che si dedicano a spolpare i turisti per poi concedere al nostro eroe un po’ di letto, un po’ di soldi. Ci sono le infermiere, che sembra amare particolarmente. E c’è il quartiere d’intorno che mugola, grida, eiacula, un groviglio continuo di corpi sudati e ansanti. Storie di gelosia, storie di malocchio. Storie di spavento e sarcasmo, terrore e ironia. Donne che danno fuoco al loro uomo, mogli che evirano il marito: “Voglio proprio vedere come farai adesso a scoparti tutte quelle chi ti piacciono, figlio di puttana!” grida Carmencita, in una mano il coltello e nell’altra il brandello d’uccello che prima finisce sul pavimento e poi tra le mani di una vecchietta che rincorre l’ambulanza, “Prendetelo, che magari riescono a riattaccarglielo!”. È sesso libero e latino, certo, ma presenta le sue conseguenze. Del resto “Con le negre bisogna stare attenti” dice Pedro Juan. “Sono aggressive. A volte penso che si soffino polvere di morto l’una con l’altra” (ha invece un debole per le mulatte, le meticce, le più razziste ma anche le più fatali).
Una Cuba sudata, lezza e puzzolente, viscerale, incazzosa e oscena e altrove candida e ingenua, sognante, dalla quale non ci si può staccare — della quale si può restare spaventati o stregati, succubi per sempre. Una Cuba vera, sanguigna, lontana dalle mie ideali cartoline che il viaggio non riuscì a colorare di realtà.
Gutiérrez è nato nel 1950 a Matanzas, una piccola città a est dell’Avana. In patria è stato pubblicato tardi, come romanziere ha prima trovato fortuna in Spagna, e in Italia, ma oggi è professore universitario all’Avana e già da tempo è noto come scultore e poeta visual-sperimentale. La sua scrittura è semplice, frasi brevi e concetti chiari, pochi fronzoli, nessun giro di parole, del resto non stravede per la tradizionale letteratura sudamericana più avvezza al ghirigoro: “Non mi piace quella letteratura che abusa della lingua, usa l’eccesso, il barocco, che usa cinque pagine per raccontare un’idea di cinque righe. È un accanimento nei confronti del lettore, un’usurpazione del suo tempo”. Una lezione che specialmente chi comincia a scrivere dovrebbe tatuarsi in fronte.
La sua materia, il suo vocabolario, sembrano attingere più dai vicoli pulciosi che dai banchi dell’università; laureato in giornalismo, sfodera un elenco variegato di mestieri praticati prima dell’attuale occupazione: dallo strillone al gelataio, da soldato zappatore a istruttore di nuoto e di kajak, raccoglitore di canna da zucchero, bracciante, tecnico delle costruzioni e professore di disegno, ma si è occupato anche di radio e televisione come speaker, assistente regista e autore di documentari, nonché come attore. Un factotum. Un po’ come il poco amato Bukowski, sì.
E come lui è uno di quegli autori che ti possono incoraggiare, facendoti sentire il miracolo della letteratura lì, a portata di mano, accessibile anche dalla strada: l’importante è avere un’anima accesa, dentro. E il coraggio, l’umiltà, la presunzione di volerci provare, sempre. Guai a copiarlo, però, e chi ci ha provato sa cosa intendo: lo stile non si compra, la febbre non si imita, la buona letteratura nasce dalla pancia e si affina soltanto sulla propria pelle, bianca, nera, meticcia, abbronzata o scorticata che sia.