Se non ricordo male, a p roposito dell'evergreen Letteratura & Impegno, Leonardo Sciascia sosteneva che l'unico impegno ragionevole, per uno scrinore, è quello verso se stesso - cioè scrivere buoni libri. Perché i buoni libri, anche quando sembrano parlare d'altro, parlano di noi, e di conseguenza rappresentano l'unica arma di intervento politico che non sia automaticamente un mezzo per raggiungere il potere. Perché è fin troppo evidente che la letteratura sta al potere come il mio 740 a quello di Marchionne. Questo preambolo per dire che il bel romanzo o per a prima "Ultimo giro al Guapa" (e/o, traduzione di Silvia Castoldi, pp. 316, € 18) dello scrittore di lingua inglese e di origine araba Saleem Haddad (il cui anno di nascita pare uno dei segreti di Fatima) può rappresentare una ragionevole e riuscita risposta al tema di cui opra. In un Paese a cui manca solo il nome per essere l'Egitto (o è la Turchia? ), i giovani scendono in strada per rivendicare maggiore libertà e minore corruzione. Fra di loro c'è Rasa, orfano di genitori occidentalizzati e eccentrici, innamorato del muscoloso Taymour, il quale ricambia ma allo stesso tempo vuole sposarsi e salvare la faccia. La vicenda priva ta riverbera quella politica e viceversa, in un felice intreccio fra ragioni del cuore (con sfumature politically correct) e riflessione sul presente (sullo fondo, la minaccia fondamentalista). Il romanzo è di una vivezza e passione notevoli. Haddad ha il polso del narratore. Avere messo insieme il tema dell'omosessualità, perlopiù negata nel mondo musulmano, le speranze e i successivi incubi della cosiddetta primavera araba e una storia famigliare a dir poco dolorosa testimonia se non altro quel coraggio che è sempre l'ingrediente primo dei buoni libri.