Il primo romanzo di Saleem Haddad, Ultimo giro al Guapa,(e/o, pp. 320, euro 18, traduzione di Silvia Castoldi) racconta una storia d’amore omosessuale ambientata in una imprecisata metropoli del Medio Oriente, che potrebbe assomigliare al Cairo, nel pieno della primavera araba. Il protagonista del libro, il giovane Raza che lavora come interprete per i corrispondenti della stampa occidentale dopo aver vissuto per qualche tempo in America, e i suoi amici evocano la complessità della condizione omosessuale nei paesi arabi, tra repressione ufficialem minacce degli integralisti e crescita di una cultura lgbtq con propri luoghi di incontro e propri linguaggi. In questo senso, proprio il Guapa, locale in cui si incontrano «gli esclusi», diventa il simbolo della rivolta contro le ipocrisie e le contraddizioni di queste società scosse fin dalle fondamenta dalle proteste giovanili scoppiate cinque anni orsono.
Nato in Kuwait nel 1983 da madre iracheno-tedesca e padre palestinese-libanese e cresciuto tra Giordania, Canada e Gran Bretagna, prima di trasferirsi definitivamente a Londra dove lavora per la ong Safeworld, Saleem Haddad, che cita, tra gli altri, tra i propri riferimenti letterari Colm Toibin, Gore Vidal o lo scrittore gay marocchino Abdellah Taïa, ci offre così un inedito ritratto intimo all’interno del fenomeno delle primavere arabe, colto tuttavia nella sua dimensione quotidiana. Lo scrittore è stato tra gli ospiti più attesi del recente Salone del libro di Torino.
«Ultimo giro al Guapa» sembra riflettere sull’eredità che, malgrado abbiano conosciuto più sconfitte che affermazioni, le primavere arabe hanno comunque lasciato dietro di sé nella vita quotidiana delle persone. Qualcosa è cambiato per sempre?
Direi proprio di si. Se infatti dal punto di vista politico è ancora troppo presto per dire quale sarà l’eredità sul lungo periodo di quei movimenti, che al momento sono stati spesso rimpiazzati da un ritorno sulla scena politica di un autoritarismo ancora più duro di prima, lo stesso non si può dire delle persone, ed in particolare dei giovani.
Regimi interi sono crollati, altri sono sul punto di farlo, ma anche dove lo spirito della rivoluzione si è fatto soltanto sentire in modo superficiale il potere deve fare oggi ricorso alla paura, deve evocare i fantasmi di minacce interne o di complotti internazionali. Solo così può cercare di raccogliere quel consenso che prima otteneva in modo più ampio e diretto. Ma, in particolare per i giovani che hanno fatto l’esperienza della rivolta e della piazza, niente potrà davvero tornare a come era prima.
Uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere il romanzo è stato proprio la necessità, quasi un bisogno di far capire cosa sia avvenuto durante le cosiddette primavere arabe, che io preferisco chiamare rivoluzioni, a coloro che non hanno invece vissuto quelle vicende in prima persona.
Lei fa riferimento al fatto che in molti paesi arabi si cerchi di tornare allo status quo evocando il pericolo del fondamentalismo e giocando sulla comprensibile paura che tutto ciò suscita. Nemmeno i giovani si sottraggono a questo ricatto?
Sono loro i più recalcitranti, anche per motivi biografici, ad accettare la retorica del «si stava meglio prima» cui fanno ricorso perfino dittatori come Assad in Siria. Il tema centrale del mio romanzo è però proprio questo: vale a dire quanto o cosa siamo disposti ad accettare in nome della paura e come possiamo invece cercare di ribellarci a tutto ciò.
È l’argomento principale con cui ci si deve misurare se si vuole capire cosa ne è oggi di quelle società che hanno prodotto le rivoluzioni arabe degli scorsi anni.
Nel mio caso, il punto di osservazione è quello di chi, perché appartiene ad una minoranza culturale o sessuale, è in qualche modo abituato a fare i conti con il sospetto e la paura. Sullo sfondo, pian piano, emerge però l’insieme di una metropoli, e per questa via emerge un’intera società, che sono ora costrette a misurarsi complessivamente con questi sentimenti. Al pari dei miei personaggi non ho una risposta definitiva da offrire a tali quesiti, ma so che non bisogna arrendersi mai, proprio come fanno loro.
Una risposta parziale si trova nelle biografie di alcuni dei personaggi del libro. A partire dal protagonista, Raza, la cui identità sembra situarsi al confine tra la cultura araba e quella occidentale. L’antidoto più forte alla paura è la voglia di apertura emersa con le primavere arabe?
Senza dubbio. Il romanzo descrive persone che sono per molti versi alla ricerca della propria identità, si tratti del genere, della cultura, dell’appartenenza sociale. Ancora una volta si tratta di domande che si pongono i singoli, ma che hanno a che fare anche con la storia della regione in cui vivono. Si tratta di paesi che hanno conosciuto una lunga stagione di oppressione coloniale alla quale ha fatto seguito un nazionalismo che ha spesso oppresso e tentato di cancellare le minoranze. Sulla crisi – economica, sociale, culturale – di quelle società si è svilluppato un fondamentalismo religioso a sua volta portatore di una visione che nega l’esistenza stessa di differenze e di più identità in seno alla popolazione.
Da questo punto di vista, le primavere arabe hanno rappresentato, specie per i giovani, un primo salutare risveglio. Il tentativo di costruire, se non un approccio pienamente cosmopolita perlomeno una apertura verso il resto del mondo che consenta di rifiutare le sirene del nazionalismo e della xenofobia.
Xenofobia che al contrario è utilizzata dai regimi autoritari che sono tornati al potere, come illustrato dal caso di Giulio Regeni, torturato e ucciso da uomini dello stato in un paese in cui cresce un clima da «caccia allo straniero».
È proprio così. Il regime del Cairo, al pari di quelli riemersi negli ultimi tre, quattro anni dopo la fase delle «primavere», cerca di legittimarsi alimentando una paura costante nei confronti degli stranieri, degli islamisti, come degli omosessuali, ma anche dei movimenti delle donne. Nel caso di Giulio Regeni si è visto come questo clima si possa poi tradurre in un attentato costante alla libertà di ricerca, nella volontà di eliminare anche fisicamente chi intende documentare e raccontare cosa accade nelle società. In seguito a questa tragedia, la mobilitazione internazionale ha fatto emergere come siano migliaia le persone arrestate o detenute solo per le loro idee.
La battaglia in nome di Giulio Regeni deve continuare perché solo la solidarietà globale può tentare di sconfiggere la xenofobia e la violenza delle autorità.
Tornando al romanzo, si è spesso portati a pensare che l’Islam, specie quello di matrice fondamentalista, giochi un ruolo determinante nella repressione degli omosessuali. Lei presenta invece le cose in modo piuttosto diverso.
Ritengo che sia una forte semplificazione quella di dire che la repressione nei confronti degli omosessuali trae origine nel mondo arabo-islamico dal solo elemento religioso. In realtà, il più delle volte, la fede è un elemento che viene manipolato da chi detiene il potere per opprimere le persone e cercare di occultare questa stessa repressione dietro motivazioni e dettami pseudo religiosi. In particolare contro i gay vengono utilizzati anche gli stereotipi che hanno a che fare con una nozione ferma e chiusa di mascolinità; oppure viene riproposta una figura idealtipica di uomo arabo simbolo dei cosiddetti «valori tradizionali».
Per questo, più che a ciò che dicono i testi dell’Islam, che per altro contengono riferimenti contraddittori in materia, nel romanzo ho cercato di descrivere come la fede sia strumentalizzata da più parti. La minaccia fondamentalista esiste, ma anche chi si presenta come paladino della democrazia laica può essere altrettanto pericoloso.
Eppure il protagonista del libro, Raza, che attraversa un momento molto difficile, incontra uno dei leader islamisti locali e sembra subirne il fascino, apparentemente proprio perché quest’uomo incarna al contrario un’esistenza basata su precetti semplici e tranquillizzanti. È così?
Raza, che è stato scoperto da sua nonna inseme al ragazzo che ama, teme le conseguenze di questa vicenda; è inoltre spaventato e confuso quando incontra Ahmed che è alla testa del movimento di protesta degli integralisti islamici. Il ragazzo si sta ponendo molte domande, è incerto e timoroso su cosa gli accadrà e su quale piega potrà assumere la sua vita, mentre di fronte a sé ha un uomo dalle certezze incrollabili, certo e determinato nel suo percorso. Tutto ciò suscita interesse e ammirazione in Raza che cerca consolazione e pace in questa fase così difficile della sua vita, ma che allo stesso tempo subisce anche l’attrazione fisica dell’uomo.
Si può dire che Raza, che razionalmente rifiuta le idee intransigenti e conservatrici di Ahmed, sembra sul punto di avvicinarvsi ad esse perché le trasforma per molti versi in senso erotico. Un modo ulteriore, da parte mia, per invitare i lettori ad andare oltre le etichette e cercare di capire le tante sfaccettature, differenze e apparrenti contraddizioni che può riservare un mondo spesso descritto con criteri totalizzanti e come depositario di una presunta omogeneità culturale smentita invece totalmente dalla sua realtà quotidiana.