Quanto è difficile e complicato vivere la propria omosessualità nel mondo arabo, quanto è difficile accettarsi in una società che celebra il culto del maschio venerandone la superiorità e non mostrando alcuna tolleranza per qualsivoglia diversità? Lo spiega all’HuffPost il trentatreenne Saleem Haddad, uno degli ospiti più attesi al Salone del Libro di Torino. Il suo romanzo d’esordio, Last Round at Guapa - prima di essere pubblicato in Italia dalla casa editrice e/o con il titolo Ultimo giro al Guapa, brillantemente tradotto da Silvia Castoldi - ha avuto un grande successo di pubblico e di critica nel mondo anglosassone, ma non in Medio Oriente, in particolar modo in Kuwait, che è poi il posto da cui proviene Haddad. “Qualche copia in inglese si trova anche in Libano e in Palestina, ma niente di più. Spero che la situazione possa cambiare presto”, ci spiega durante il nostro incontro torinese questo ragazzo trentatreenne nato da madre iracheno-tedesca e da padre palestinese e che - dopo esser cresciuto prima in Giordania e poi in Canada – ha deciso di vivere a Londra dove si occupa di politica e di processi di transizione e peacekeeping per conto di una società internazionale. Perché il suo un libro così non è stato tradotto in arabo? La spiegazione è semplice: perché parla di omosessualità.
Al centro della vicenda, la storia drammatica e personale di un giovane ragazzo arabo, Rasa, gay non dichiarato in famiglia e non proprio totalmente all’esterno. Lavora come interprete e vive con sua nonna Teta, dalla mentalità chiusa e bigotta e tutt’altro che adorabile. Ha un solo amico, Maj, una drag queen molto divertente che è la vera star del Guapa, locale underground per lesbiche e, e un amante segreto di nome Taymour con cui si frequenterà fino a quando non capiterà un episodio spiacevole che farà precipitare la situazione. Da quel preciso momento, infatti, Rasa inizierà a ripensare a sé stesso, ad interrogarsi sul perché di certe scelte (quando invece sono degli istinti naturali) in un intreccio in cui i ricordi del passato - il poco tempo passato con i suoi genitori, in particolar modo con sua madre che lo abbandonò quando era piccolo, la sua emigrazione in America, la difficoltà ad integrarsi in un Paese straniero e il suo ritorno a casa – vanno ad incontrarsi con i momenti di un presente privo di luce. Sullo sfondo, c’è la Primavera araba e tutto quello che la stessa ha significato prima che la repressione del regime e la successiva estremizzazione degli scontri facessero nascere il fondamentalismo islamico. La sua storia fa venire un certo magone in chi la legge, etero o gay poco importa, perché dentro c’è tutta la tristezza e l’insicurezza di chi non è stato e non è libero di poter essere quello che è veramente, perché costretto a reprimere certi sentimenti e pensieri solo perché ritenuti “sbagliati” da un regime rigido e dittatoriale. Spesso il problema iniziale sta proprio nella famiglia – e questa storia lo dimostra – per gli arabi, ma non solo per loro, il principale nucleo di appartenenza. Le parole di Rasa, che poi sono quelle di Haddad, sono più che altro un grido di dolore, un urlo necessario per condannare quel mondo che non aiuta ma ostacola, che non tollera ma boicotta, che preferisce sopravvivere di ipocrisie e di contraddizioni più che vivere.
Da dove nasce il bisogno di raccontare questa storia?
Viene da me, dalla mia storia personale. Questa non è la mia autobiografia, ma c’è molto di me e delle mie esperienze, ma – soprattutto – ci sono i miei dolori che poi sono quelli di tanti altri gay costretti a vivere in certe condizioni, nel silenzio e nel segreto se non vogliono essere discriminati. Il mio protagonista, Rasa, confida più volte a sé stesso di essere alla deriva, un po’ come quei profughi che non sanno dove andare.
Lei infatti scrive che “dall’esterno è impossibile capire cosa gli sta succedendo, ma in privato si è creato una gabbia mentale segreta in cui costruisce i suoi pensieri cupi”, Guarda il suo corpo come una prigione, dice “di non essere né qui né là”.
Sì, è proprio così. Il fatto è che lui, vivendo in una famiglia che è lo specchio di una società che non lo capisce e che non lo aiuta, pensa che ogni sua emozione sia sbagliata. Non ha molti amici con cui confidarsi, è un ragazzo molto solo e quello che vorrebbe sentirsi dire è una parola di aiuto e un gesto di conforto in tal senso, ma questo non accade. Il suo unico sfogo è il Guapa, un locale in cui si ritrovano tutti quei ragazzi e tutte quelle ragazze che, come lui, sono costretti a nascondersi e a nascondere le proprie emozioni.
La solitudine si respira in molti momenti della storia e in diverse pagine è messa in evidenza o semplicemente accennata. La solitudine di Rasa è prima di tutto quella di una società.
Certo, lui è solo, ma non è l’unico. Come faccio dire alla drag queen Maj, nel mondo arabo c’è solitudine e in Medio Oriente siamo tutti soli e ci stiamo esibendo in una recitazione da Oscar per cercare di adattarci. Lì ci si vuole integrare, ma in realtà non c’è niente di reale in cui integrarsi. La rabbia di Rasa è la mia stessa rabbia, le sue emozioni sono le mie anche se le nostre storie sono diverse.
Nel romanzo c’è il mondo arabo e ci sono poi gli Stati Uniti, dove il protagonista vive per un periodo, ma poi torna a casa, perché è quello un mondo migliore del suo ma troppo…
Per lui che è un sognatore, gli Stati Uniti rappresentano il sogno divenuto realtà, ma una volta lì si rende conto che in realtà il sogno è solo un’esca. L’America è come l’amo di un pescatore: ti cattura ma poi ti taglia in due e ti divora e – addirittura – se non sei di suo gusto, è capace di ributtarti in acqua con un buco a forma di amo dentro la guancia.
La cosa migliore dell’America sono i libri, gli farà dire: anche tu ci sei stato a lungo, anche lei la pensa così?
No, l’America ha tante altre cose, ma sui libri sì, posso dirle che è successo anche a me. La prima volta che andai in una biblioteca a New York fui colpito da tutti quei libri sistemati in enormi e lunghi scafali, pieni a non finire. Era incredibile per un arabo come me poterli avere a portata di mano e poterli consultare senza alcuna censura. Come per Rasa, sono stati i libri ad aiutarmi a pormi delle domande, come sapere cosa significasse l’essere arabo sotto lo sguardo americano e a cercarmi di dare delle risposte, ma le assicuro che non è stato semplice.
Oggi cosa può dire di aver capito?
Che c’è sempre più necessità di un cambiamento nel mio Paese e che non se ne può più di una censura perenne e di un regime che si accanisce contro gli arrabbiati e i deboli.
Il suo libro potrà mai essere pubblicato in arabo?
Me lo auguro ma ci credo davvero poco perché molti editori arabi, anche quelli più interessati, sono spaventati. Se dovesse succedere, sarei più che felice.
Un’ultima curiosità: al suo protagonista, a proposito delle adozioni gay, fa dire che “adottare bambini è un’esibizione eteronormativa volta a castrare il mondo queer”: è d’accordo?
No, non la penso come lui. Penso che l’adozione – gay come etero – sia un diritto da riconoscere ad ogni persona coscienziosa e desiderosa di costruire una famiglia. So che da voi in Italia, negli ultimi giorni, è stato fatto un passo avanti in merito alle Unioni Civili, ma con molte restrizioni. Siete comunque più fortunati di noi, ma c’è ancora tanto da fare. Lo spero con tutto il cuore, e sono sicuro di non essere il solo.