Saleem Haddad è nato in Kuwait (da madre iracheno-tedesca e padre palestinese-libanese, specifica la sua biografia) e ha vissuto prima in Giordania e poi tra Canada e Gran Bretagna. È quello che si può definire un cittadino del mondo: ha lavorato per Medici senza Frontiere nel Medio Oriente, nelle regioni più politicamente complicate, nelle città tra lo Yemen, l’Iraq e la Siria. Ha pubblicato da poco – in Italia è uscito per e/o – il suo primo romanzo Ultimo giro al guapa: la storia di Rasa, un giovane arabo omosessuale – come Saleem – calato nella scivolosa realtà degli ultimi anni. I movimenti di liberazione partiti nel 2010-11, la cosiddetta primavera araba, e i lenti cambiamenti e i le brusche marce indietro che caratterizzano quelle società.
Il tuo romanzo è ambientato in una città dal nome non specificato. Due domande su questo aspetto di Ultimo giro al Guapa: perché questa scelta e, se volessimo dare delle percentuali, quali città confluiscono nella metropoli del libro?
È impossibile per me dare delle percentuali, ma stavo tratteggiando le città che ho visitato di più. Amman, Beirut, Il Cairo e San’a. Quindi ho preso elementi dalla situazione politica in Siria, Giordania, Egitto e Libano. Ho voluto fare in modo che il nome della città fosse “anonimo” per diverse ragioni. Prima di tutto volevo che la storia raccontata assumesse una natura metaforica. Non volevo scrivere qualcosa che potesse essere scambiato per un’analisi antropologica, politica o sociale di una data nazione. Volevo essere più ambizioso, e sviluppare paralleli tra una rivoluzione politica e un risveglio sessuale, esplorando le prodigiose similitudini su come vengono governate le nazioni, le società e le famiglie.
D’altro canto, volevo disorientare i lettori, facendoli passare rapidamente da un posto all’altro. Adesso siamo in Egitto? In Libia? Oppure in Giordania? Volevo che il lettore si sentisse allo stesso tempo straniero o a casa, dentro e fuori. Ho messo insieme elementi da nazioni diverse, pescando da elementi della geografia urbana di molte città arabe: ora una strada del Cairo, per finire subito dopo in un bar di Beirut e ancora in una prigione di Damasco.
Ho voluto anche riprendere e ricalcare alcuni lavori seminali della letteratura queer nel secolo scorso… per cercare alla fine di ottenere questo sentimento: essere assieme dentro e fuori il viaggio di Rasa, che sta lottando per trovare il suo posto in un mondo in rapida trasformazione.
Infine, tornando a una prospettiva più pratica, il fatto di non nominare la nazione mi ha consentito di raccontare le vite degli omosessuali senza esporre a rischi persone, posti, o situazioni.
Quali sono le ragioni che ti hanno spinto di più a scrivere questa storia?
Essendo arabo e omosessuale, non mi sono mai ritrovato in nessuno dei romanzi o dei racconti “mainstream” della letteratura araba o inglese. Generalmente gli arabi sono rappresentati terribilmente nella narrativa occidentale, e allo stesso tempo gli omosessuali sono demonizzati in quella araba. E quindi molto raramente – se mai mi è capitato – mi sono imbattuto in una rappresentazione realistica di chi fossi.
Ho voluto scrivere una storia che fosse autenticamente rappresentativa delle mie esperienze, a provare ad affrontare questioni che molti ragazzi pongono a loro stessi – sull’identità e la speranza di un cambiamento politico, e non soltanto nel mondo arabo ma in ogni nazione.
Come abbiamo visto, il tuo romanzo racconta e si sofferma contemporaneamente su storie individuali e su questioni sociali. Vorrei chiederti, dal tuo punto di vista, quanto conta la “società” sulla vita di una persona.
La società è incredibilmente importante – molti di noi sono condizionati dalle nostre famiglie e da una comunità più ampia a comportarci in un modo che si definisce “accettabile”. E ancora la società tende a imporre cosa sia deviante e cosa sia invece accettabile, e nella mia condizione sono spesso stato percepito come “deviante” in Europa (per essere arabo) e nel mondo arabo (per essere omosessuale)… Quindi ho una relazione molto ambivalente con la società – direi che preferisco restarne fuori, anche se una parte di me potrà sempre fare in tempo ad adattarsi.
Ma ciascuno di noi può veramente “calarsi” nella società senza perdere qualcosa di sé durante questo processo? Se è così, qual è il limite entro cui è giusto? Questi problemi si affollavano mentre scrivevo.
Ancora: hai vissuto in molte nazioni, dalla Giordania al Canada al Regno Unito. Quali sono le differenze più forti che hai riscontrato in questi paesi, e non mi riferisco solo all’ordinamento politico o religioso?
Sono sempre stato molto interessato al modo in cui si relazionano le persone, gli individui. Quali regole, scritte o non scritte, guidano le interazioni sociali e il coinvolgimento nella comunità. Quando ho lasciato il Medio Oriente per andare in Canada a studiare, ricordo di essere affascinato – e inizialmente traumatizzato – da quanto le leggi civili regolassero il comportamento della gente. A questo proposito, nel Medio Oriente le leggi sociali giocano un ruolo ben più grande rispetto a quello delle leggi dello Stato, verso cui si ha un atteggiamento più malleabile. Ho trovato rilassante la rigida applicazione delle leggi in Occidente, mi sentivo protetto da qualcosa di concreto, ma anche alienato, perché mi lasciava poco spazio per una comprensione più umana.
Uno degli aspetti centrali del romanzo è costituito dalle rivolte nel mondo arabo: dal 2011 sono trascorsi cinque anni. La situazione varia da nazione a nazione e mi rendo conto che è molto difficile generalizzare, quello che vorrei chiederti è se pensi che il processo di emancipazione sociale su basi democratiche abbia una possibilità concreata di ripartire.
Penso che in un certo modo fossimo tutti troppo ingenui per pensare che quel genere di cambiamenti radicali potessero realizzarsi in un periodo così breve. O che una volta iniziato, avremmo potuto governarne gli sviluppi. Ma penso che il cambiamento sia iniziato e che il processo sia inarrestabile.
Questo è il tuo primo romanzo, quali sono gli scrittori che hai letto di più e chi tra loro ti ha ispirato?
Non ho avuto un percorso formale da scrittore, quindi ho imparato leggendo e lavorando sugli stili dei miei autori preferiti. Per questo romanzo sono stato molto influenzato dallo scrittore egiziano Waguih Ghali e dal suo Beer in the Snooker Club. Leggerlo mi ha aiutato a scoprire la mia voce, e il mio romanzo rievoca il suo tema, quello di un giovane idealista che lotta per trovare un posto nel mondo.
Ho studiato molti libri di narrativa gay, in particolare quelli che esaminano il desiderio e allo stesso tempo l’ansia di doversi nascondere. I romanzi di Abdellah Taïa, ad esempio, soprattutto An Arab Melancholia. Ho anche lavorato su modo in cui James Baldwin ha costruito le frasi in La camera di Giovanni, o il modo in cui Andre Aciman ha scritto di sensualità e desiderio in Chiamami col tuo nome. E ancora Colm Tóibín, Cristopher Isherwood, Gore Vidal, ma anche Teju Cole, Junot Diaz, Hemingway e Fitzgerald: mi sentivo come una spugna, studiando i modi differenti utilizzati da questi scrittori per esprimere idee e pensieri.
Mi hanno ispirato molto anche gli scritti e le storie di giornalisti e attivisti della regione, da Mariam Alkhawaya a Lina Sinjab, da Atiaf Alwazir a Youssef Rakha: mi hanno aiutato per raccontare il movimento rivoluzionario, e il linguaggio e i dialoghi che si svolgono mentre avvengono le proteste di strada.
Raza è un giovane omosessuale: nel romanzo si scontra con la sua famiglia e con il mondo in cui vive. Non è un problema che riguarda solo i paesi arabi. Intravedi possibilità di miglioramento nei prossimi anni?
Penso che finché viviamo questo momento particolarmente buio sarà difficile intravedere concrete possibilità di miglioramento. Ci sono segnali positivi che arrivano dal Libano, dove è stato fatto qualche piccolo cambiamento legislativo. D’altro canto in Egitto assistiamo a un rinnovato giro di vite sugli omosessuali, che del resto è parte della stretta impressa dal governo su intellettuali, scrittori, attivisti dei diritti umani. Ma credo che potremo migliorare, che avremo speranza fino a quando ci saranno persone che si battono per un futuro migliore.