Uno immagina una sorta di Gadda colombiano, filologo invece che ingegnere, che tra un giallo e l’altro si è perso per strada questa Casa a Bogotà (Edizioni E/O, Traduzione di Raul Schenardi), gli è sfuggita di mano nel percorso. Lo raccogli, questo romanzo/casa/mondo, perché la “Casa” è sempre stata una tua fissazione, uno di quei temi che tornano ciclicamente nel tuo personale immaginario, ti fermi e ci entri. Così ti ritrovi a seguire il protagonista – che forse è, forse non è un qualche alter ego dell’autore – in un lungo tour per la sua nuova magione. Una casa vista da lontano, sognata, concupita e alla fine conquistata grazie a un premio letterario. Passi di stanza in stanza mentre il padrone di casa snocciola aneddoti, ricordi, fotografie, istanti del passato suo, della sua famiglia perduta, dell’unica zia che lo ha cresciuto. Proprio come quando vai a trovare un amico che si è appena installato nella sua ultima abitazione, e lo stai a sentire mentre continua a chiacchierare e ti porta in giro a vedere il bagno, la camera da letto, lì ci si piazzano i ragazzini, perché poi ti offrirà una fetta di torta e un caffè in cucina, perché quando tu hai preso casa hai fatto la stessa cosa, e insomma non puoi esimerti.
E succede che lentamente inizia a svelarsi – letteralmente, nel senso di togliere il velo – una realtà che conosci poco: Bogotà, cos’è Bogotà, come si vive, chi la vive? Io, per dire, ho un amico prete, a Bogotà. Lo avevo, non ho sue notizie da anni. E non avevo idea che la città fosse costruita su una piana a 2640 metri sul livello del mare, con quel quid di ossigeno in meno da provocare non di rado mal di testa (e probabilmente qualche benevolo delirio edilizio). Così la casa e la città ti si aprono davanti, ma pian piano finisci per prendere una direzione scomoda, sgradevole, ostica, visiti i luoghi dove stanno gli invisibili, i poveracci, quelli che si vendono qualsiasi cosa per la loro dose di crack, anche i figli, oppure i nostalgici nazisti che organizzano orge. Tu vorresti passare ad altro, ma siccome il padrone di casa è lui, niente da fare, ti tocca seguirlo.
E per fortuna che a un certo punto si accorge del bambino! Un bambino che vive lì vicino (sì, perché a un certo punto il padrone di casa smette di mostrarti le proprie stanze e attacca con l’evergreen di tutti i tempi: spettegoliamo un po’ dei vicini). Ma prima di scoprire chi è sto ragazzino, eh, succede una cosa che non ti aspetti (o forse sì, considerando che ogni recensione comparsa online riporta l’evento, e quindi neanche noi ci esimiamo dallo spoiler): muore la zia. E la cosa ti dispiace, perché ti piaceva, quella zia così emancipata e arguta, anzi, diciamola tutta: in realtà eravamo venuti a trovare lei, a sentire come sta, no?, come se la passa nella nuova casa. Gran donna, la zia.
Alla fine della visita, quando esci dalla casa, resti non dico delusa, figuriamoci, Santiago Gamboa fa il suo mestiere di funambolico narratore sudamericano come si deve. Però, però… ti senti come quelle vecchie brontolone che non riescono a impedirsi di dire “” a intervalli più o meno regolari. E ti resta la consapevolezza che dopotutto la gente resta sempre fedele a sé stessa, anche il filologo che ti ha appena fatto fare il giro di casa sua. E che i libri, le case (il mondo) sono luoghi pericolosi da vivere.