Il protagonista di Ultimo giro al Guapa, Raza, vive in una città non identificata del Medio Oriente. Gay e impegnato politicamente, nelle ventiquattr’ore del romanzo sperimenta la fine della sua relazione con Taymour e la delusione della Primavera araba, che tramonta nella violenza. «Non li chiamerei fallimenti, però», osserva l’autore, Saleem Haddad, 33 anni. «Raza riconosce che non tutto è bianco e nero come pensa all’inizio. La rivoluzione non è finita, c’è gente che lotta ancora oggi, esistono altri locali clandestini come il Guapa, dove si incontrano gay e persone che condividono la speranza di un cambiamento. Ma la Primavera araba ci ha fatto capire quanto come cittadini siamo lontani da una dimensione collettiva, arroccati su punti di vista diversi e a volte inconciliabili».
Il suo è un romanzo di formazione: anche per lei, visto che è il primo. In che lingua è scritto?
«Per questa storia è stato naturale scrivere in inglese, il che però non esclude gli arabi: molti parlano correntemente inglese».
Anche il leader fondamentalista del suo libro conosce l’inglese, ma si rifiuta di parlarlo. Perché?
«Fa parte di un’opposizione che sceglie di parlare solo arabo, perché l’inglese è la lingua dei ricchi e colti».
Così la lingua unisce due diverse opposizioni al regime: quella progressista di Raza e quella ultraconservatrice di Ahmed.
«La lingua è la stessa, ma il discorso è diverso. La Primavera araba è vista in modo semplicistico, soprattutto in Occidente, ma la politica è molto più complessa: “crisi”, ad esempio, può essere il modo di definire la rivoluzione, vista da un’altra parte. Si può chiamare una persona “povero” o “fondamentalista”, e il cambiamento è radicale».
Quindi sono le parole a definire le persone?
«La prima parola con cui Raza si scontra nel libro è khawal. Nel romanzo rimane senza traduzione: erano i danzatori del ventre maschi, ora è un insulto. Nel Medio Oriente non c’è un modo neutro o positivo per descrivere gli omosessuali, come queer o gay, che non hanno accezioni negative di per sé. Adesso qualche novità comincia a vedersi, ed è importante: esistono mille modi di vivere la propria sessualità e la propria omosessualità, e definirsi queer o gay non deve necessariamente rimandare a un modello occidentale».
Un altro termine non tradotto è Eib, vergogna. In cosa è diverso dall’idea cattolica di vergogna?
«Per me eib è relativo alla comunità, non alla religione. Cosa dirà la gente? Quale comportamento è accettabile, quale no? Eib è un modo di regolare i rapporti sociali, abbastanza elastico da lasciar spazio all’ipocrisia, abbastanza solido da giustificare divieti e limitazioni».
E haram, peccato?
«È l’elemento religioso della vergogna, ha una struttura più rigida, basata sul Corano. Per me non è così interessante, trovo più stimolante studiare le persone, la società, i suoi cambiamenti, che si rispecchiano nell’eib ma quasi mai nell’haram».
Nel romanzo è citato Gramsci, dai Quaderni dal carcere, a proposito di Kant e dell’etica. Come mai?
«L’ho studiato all’università. Nel libro sta a sottolineare come norme e regole che sembrano universali in realtà siano legate a una cultura e un momento precisi. Cosa è giusto e cosa sbagliato? Non so, posso rispondere per me stesso: vivere autenticamente, e mettere in discussione se stessi e le proprie idee ogni giorno».
Le reazioni al romanzo?
«Migliori del previsto, molti nel Medio Oriente pensano che sia ora di parlare di questi temi, il mio libro è visto come l’inizio di una conversazione».
Maj viene arrestato e umiliato dalla polizia perché gay. Lei potrà tornare dai suoi senza timore?
«Da tempo vivo a Londra, quindi lo saprò quest’estate quando tornerò. Finora non ho avuto minacce».