Santiago Gamboa, autore di Una casa a Bogotá (e/o, pp. 204, euro 17), è un giallista colombiano che sa tenere alta la tensione della scrittura anche quando scrive romanzi a base di vita in purezza. Il protagonista del libro è un filologo che vince un premio letterario grazie al quale acquista la casa dei suoi sogni, a Bogotá, dove l’altitudine si combatte con il whisky. Orfano dall’età di sei anni, adottato da una zia coltissima e intraprendente, scopre i molteplici segreti di Bogotá grazie all’aiuto di un fedele autista. Gamboa offre al lettore uno spaccato di vita unico al mondo, in cui il sesso estremo si può vedere anche dal vivo, ma il vero scandalo resta la rete dei nostri ricordi più intimi.
Ha scritto un romanzo sulle case di una vita, anzi sulla malinconia che le case inducono nelle persone. Quanto conta per lei una casa?
«Ho vissuto in cinque Paesi, in cinque città molto diverse: a Madrid ho fatto l’Università ed è stata una vera fiesta perché tutta la Spagna è un gigantesco bar. A Parigi ho iniziato la vita lavorativa, gli impegni. Lì sono diventato giornalista e romanziere. Nel 1997 sono venuto a Roma dietro a una donna e ho scoperto un altro modo di vivere. Roma e il luogo che mi è più caro al mondo. Poi c’è stata New Dehli, dove ho conosciuto una cultura radicalmente diversa. Da un anno sono tornato in Colombia, a Cali. La casa è il grande rifugio dell’Io».
Nel romanzo la letteratura è padrona del campo. Quali sono le sue priorità dopo i libri?
«I viaggi. “Leggi tanti libri e vattene di casa”, dice Paul Theroux a un giovane scrittore che gli chiede un consiglio. La solitudine nei viaggi è un tipo di solitudine creativa che non si può trovare altrove. Il viaggio resta per me il modo migliore di avvicinarmi alla creazione letteraria».
Bogotá centro del mondo. Che città è? Droga, altitudine, sesso estremo, quali e quante sono le sue anime?
«Bogotá è una strana e mostruosa città che già supera i 10 milioni di abitanti e contiene tutto: cultura, violenza, bellezza, crudeltà e superficialità. Quelli nati a lì, almeno coloro che appartengono alla mia generazione, nutrono però l’idea di essere nati in un posto insignificante, dove nessuno vorrebbe venire per paura o disinteresse».
Perché ha scelto Roma per vivere una seconda vita?
«Roma è stata la prima citta in cui ho vissuto dopo Bogotá. Avevo otto anni quando siamo arrivati, lo stesso giorno dell’attentato a Fiumicino nel quale un commando palestinese uccise 30 passageri della Pan American. Era il 17 dicembre 1973. Mio padre, mio fratello e io siamo arrivati dalla Colombia un’ora prima con i nostri bagagli,come dei rifugiati: pentole, ferro da stiro, televisione portatile Telefunken...».
Sei stato direttore artistico di un Festival della cultura spagnola a Perugia. Dove va oggi la letteratura spagnola?
«La letteratura in lingua spagnola gode di ottima salute, ma il Festival Encuentro è stata una delle cose più belle e più brutte che mi siano capitate in Italia. Ho creato il contenuto del Festival, ho portato i miei amici scrittori dalla Spagna e dall’America Latina. I lettori di Perugia hanno visto autori che ammiravano come Almudena Grandes, Enrique Vila-Matas, Leonardo Padura, Paco Ignacio Taibo II, e pure Luis Sepúlveda, invitato dagli organizzatori. Dopo aver preso i miei contatti, mi hanno cacciato via per non pagarmi il biglietto aereo, una cosa patetica per un Festival internazionale. Tuttora sono in debito con me».
Che cos’è il narcotraffico oggi? Qual è la situazione politica della Colombia? E come si vive a Bogotà?
«Il narcotraffico è cambiato: adesso i colombiani lavorano per i messicani. Oggi la Colombia si prepara per quella che io chiamo la “seconda Independenza”, che sarebbe il Processo di pace con le FARC. A Bogotá si vive bene se hai un lavoro, come in qualsiasi altra città del mondo. Esci dall’ufficio e vai a bere una birra con i tuoi amici, o a casa tua. Se c’é una partita di calcio, ancora meglio. James é diventato il colombiano più amato dopo García Marquez...».
Chi sono i migliori giallisti italiani?
«Non sono uno specialista, ma penso De Cataldo, Lucarelli e Massimo Carlotto, insieme a Camilleri, ovviamente, una specie di Balzac del giallo italiano».
Chi sono i suoi migliori amici tra gli scrittori della sua generazione. E cosa pensa di Sepúlveda?
«Frequento il mondo letterario da più di vent’anni: ho visto passare tanti autori, molti dei quali sono stati amici. Sono molto amico di Jorge Volpi, Fernando Iwasaki, Héctor Abad. Uno dei miei migliori amici è stato Roberto Bolaño, ci siamo conosciuti a Roma nel 1998. È venuto con la moglie incinta e suo figlio Lautaro. Poi ci siamo incontrati in Spagna e in altri Paesi. Dieci giorni prima della sua morte abbiamo trascorso insieme una settimana in Siviglia. È stato un colpo durissimo. Di altre generazioni ho conosciuto e amato molto García Marquez, grazie al quale sono stato diplomatico in India. E poi, Taibo e Padura sono per me come angeli guardiani della buona letteratura. Sepúlveda è un grandissimo e generoso amico, votato ad aiutare i suoi amici scrittori di minor sucesso, come me. Il mio primo libro in Italia è stato pubblicato da Guanda nella sua collana “La frontiera scomparsa”, con una sua bellissima prefazione».