Negli anni 90 è stato salutato dallo scrittore Manuel Vazquez Moltalban come degno successore di Gabriel Garcia Marquez, ma a leggerlo oggi si presenta più come fratello letterario di Jorge Luis Borges, Julio Cortazar o Roberto Bolaño. Parliamo di Santiago Gamboa, scrittore colombiano già amato e celebrato in America Latina grazie a un'impeccabile produzione di romanzi e in questi giorni di nuovo nelle librerie con Una casa a Bogotà. Il libro appartiene al dominio dell'auto-finzione, attingendo all'immaginazione quanto alla vita, per divagare intorno a persone, accadimenti, città. La città in questione è Bogotà, e la casa che dà il titolo alla storia è quella che il filologo protagonista e alter ego di Gamboa compra a inizio storia per trasferirsi lì insieme alla famiglia, composta solo da una zia. Prossimo ai cinquant'anni, e da 42 orfano di madre e padre in seguito a un incendio (da qui il forte legame con la zia), il filologo racconta !'acquisto della casa, il trasloco, una dopo l'altra le stanze, i suoi abitanti stanziali e occasionali. E nel farlo si avvicina, dicevamo, a certi racconti di Borges, Cortazar e Bolaño, per poi distanziarsi di colpo dal Sudamerica e approdare nell'Oriente pop dei giapponesi Haruki Murakami (già dalle prime pagine viene in mente la casa-ossessione dell'Uccello che girava le viti del mondo), Hayao Miyazaki (e le sue case animate che sembrano sempre palpitare come fossero persone) e Yasujiro Ozu (che più di ogni altro è riuscito a raccontare nei film la simultaneità di azioni che definisce la vita). Palpita la casa del filologo, e palpita di cultura, abitata da libri custodi di legami e sentimenti. Più che un titolo «una casa a Bogotà» suona come una risposta a una tacita domanda: Gamboa, che cos'è per lei la scrittura?