Da qualche giorno il presidente iraniano Hassan Rouhani si trova in Europa: dopo avere visitato Roma – e dopo che sulla stampa italiana si è parlato molto dalla storia delle statue coperte dei Musei capitolini – Rouhani è arrivato a Parigi, dove ha incontrato tra gli altri il presidente francese François Hollande. Con la rimozione delle sanzioni sul nucleare, in molti si aspettano che il governo iraniano ristabilisca nel breve periodo dei rapporti più stabili con l’Occidente, gli stessi che si erano deteriorati subito dopo la Rivoluzione guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario. Le immagini di quella rivoluzione fecero il giro del mondo e spaventarono praticamente tutti i governi occidentali.
Lo scorso luglio Edizioni e/o ha pubblicato Il giardino persiano di Chiara Mezzalama. Il romanzo, fortemente autobiografico, racconta dal punto di vista di una bambina, figlia dell’ambasciatore italiano in Iran, i giorni della rivoluzione e la vita quotidiana a Teheran, blindata dalle guardie della rivoluzione. A suo modo il libro rappresenta un documento sulla vita prima della rivoluzione e sul fanatismo crescente, inspiegabile agli occhi di una bambina italiana: l’arrivo all’aeroporto di Teheran, le donne coperte dagli chador stretti tra i denti per avere le mani libere e tenere le valigie ai bambini – «fu questo a spaventarmi, più dei kalašnikov, degli stivali di cuoio, dei veli neri, del rumore e del clima di tensione che si respirava» –, la perquisizione della bambina e di sua madre ad opera di una funzionaria completamente coperta e con i guanti neri, la requisizione del mazzo di carte di suo fratello, le barbe nere degli uomini e la quiete dentro l’ambasciata dove, però, le guardie irrompono per impedire a dei musicisti di suonare musica tradizionale persiana.
Nell’estratto, l’ambasciatore e la sua famiglia stanno per partire per una zona montuosa dove una ditta italiana sta costruendo una diga, quando la protagonista si ritrova a guardare la foto di una bambina della sua età in chador con in mano un kalašnikov dal quale spuntava un garofano rosso.
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Una mattina a colazione, mentre beveva il suo tè e mangiava il pane perfettamente abbrustolito, mio padre ci annunciò che lo avremmo accompagnato a Lahr, dove un’impresa italiana stava costruendo una grande diga tra le montagne.
«Sapete bambini, l’Iran è un paese meraviglioso, se non ci fossero la guerra e la pazzia dei barbuti vi porterei a visitarlo. Intanto faremo questa piccola gita. Vedrete dei paesaggi incredibili. Montagne antiche quanto la storia della Terra, altipiani sconfinati, se siamo fortunati vedremo le tende dei pastori nomadi e le greggi di capre. E poi questi italiani sono degli eroi. Gente che lavora, ingegneri, tecnici, operai, tutti con le famiglie, credo che ci siano anche dei bambini. Mi hanno detto che nel lago si può pescare».
Sembrava una prospettiva allettante. Qualcosa che avrebbe spezzato un po’ la monotonia.
«Moretto (il cane dell’ambasciatore, ndr) può venire con noi?» chiese Paolo preoccupato.
«No Paolino, questo non è possibile, lo affideremo a Lita, e poi staremo via solo un paio di giorni».
«Quando partiamo?» domandai.
«La settimana prossima. Sempre che non succeda qualcosa, non si può mai sapere da queste parti. Elena, guarda qui, me l’hanno data ieri in cancelleria».
Mio padre tirò fuori dalla sua borsa una cartolina di propaganda della Repubblica Islamica. «L’ho trovata impressionante» commentò.
La mamma la guardò e scosse la testa, poi lesse ad alta voce la frase sul retro: «We hope that the society of women will arise from the ignorance and false sleep imposed upon them by the plunderers… speriamo che la società delle donne si ribelli all’ignoranza e al falso sonno imposto loro dagli usurpatori… Che coraggio questo Khomeini, ma come si permette? Povere ragazzine».
«Me la fai vedere, mamma?» chiesi.
Sulla cartolina c’era una bambina di quattro o cinque anni, in chador nero, con in braccio un kalašnikov dal quale spuntava un garofano rosso. Alle sue spalle un gruppo di militari davanti a una tenda da campo. Sotto il chador si vedevano i suoi piedi con dei calzini e delle ciabatte di plastica bianca. Il bordo del chador era impolverato. Lei aveva una faccia così triste. Il suo sguardo era altrove.
Sentii una fitta alla pancia. Quella bambina era una bambina come me. Come Paolo, come Massoud, come Zora; tutto dipendeva da quale parte del muro ti trovavi. E lei non era dalla parte giusta. Non era nel posto giusto. Continuavo a guardarla come se mi aspettassi che si mettesse a parlare, che diventassimo amiche, che mi raccontasse cosa significava avere un fucile tra le braccia invece di una bambola. Non riuscivo più a parlare.
«Bambini» disse mio padre, accorgendosi dello sconforto che aveva suscitato in me quella foto, «non sono cose per voi. Era solo per dire che il fanatismo, in qualunque forma si manifesti, si trasforma sempre in tragedia».
Fece il gesto di riprendersi la cartolina ma mi opposi.
«Papà» dissi facendomi coraggio, «posso tenerla?».
«E che ci devi fare?».
«Voglio salvarla» dissi senza pensare.
«D’accordo, tienila pure» disse papà.
Così la bambina con il chador entrò a far parte delle mie amicizie. La sistemai in camera, in una piccola nicchia nel muro che divenne la sua casa. La mattina quando mi alzavo la salutavo, e la sera le davo la buona notte, baciandola su quel viso triste che mi faceva venire voglia di piangere. Ogni tanto le parlavo. Oppure mettevo dei fiori che raccoglievo in giardino. Mi occupavo di lei, e questo mi sollevava un po’ dal senso di colpa di essere una bambina d’ambasciata, mentre lei era una bambina di guerra.