Nel mondo a parte dell’ambasciata italiana a Teheran la piccola Chiara vive un’estate piena di scoperte. È il 1981, e fuori da quel giardino incantato l’ayatollah Khomeini impone il terrore. Tra la luce brillante delle miniature antiche e il buio del regime teocratico prende vita il racconto di Chiara Mezzalama ne Il giardino persiano (Edizioni e/o), in cui riaffiorano memorie d’infanzia. Il 23 gennaio a Roma la scrittrice romana ne parla con una interlocutrice d’eccezione, il premio Pulitzer Jhumpa Lahiri, che dopo best seller come L’interprete dei malanni, L’omonimo, e Una nuova terra, nel 2015 ha pubblicato il suo primo libro scritto in italiano: un affascinante memoir pubblicato da Guanda e intitolato In altre parole. Per dedicarsi interamente alla scrittura, Mezzalama se n’è andata da Roma. La città che invece Lahiri ha scelto per un nuovo inizio come scrittrice, in italiano. L’esigenza di viaggiare, imparare più lingue, sperimentare senza ormeggi caratterizza i loro differenti percorsi. Offrendoci lo spunto per questo dialogo.
Per scrivere Il giardino persiano serviva una distanza da Roma?
Chiara: Avevo iniziato a scriverlo prima di partire per la Francia, poi ripercorrendo il mio passato è riemerso questo bisogno profondo di cambiare, di rimettersi in gioco. Nel romanzo, la mia bambina dice di voler andare in Francia per conoscere i luoghi dove ha vissuto un autore a me caro, Romain Gary. Scrivere mi ha dato voglia di realizzare quel desiderio antico, seguire un innamoramento, ritrovare delle radici culturali. È stato proprio in quel momento che ho conosciuto Jhumpa Lahiri; era arrivata da poco a Roma. La sua scelta coraggiosa di venire a scrivere in Italia ha dato anche a me il coraggio di partire.
Dopo aver raggiunto un grande successo, Jhumpa ha avuto il coraggio di mettersi in crisi, e di rinascere, scrivendo in un’altra lingua.
Chiara: Provo una stima profonda per lei. Non credo di conoscere una persona che viva più dentro il mondo delle parole di lei. È una questione di vita o di morte nel suo caso. Lei stessa ha descritto questa urgenza, questo bisogno di appropriarsi delle parole come di respirare, nutrirsi. Mi commuove la cura con cui parla l’italiano. Come fosse la cosa più preziosa al mondo.
A farti innamorare dell’italiano è stato il suono delle parole, la musicalità, o piuttosto l’ampiezza semantica e lessicale?
Jhumpa: Me lo chiedono in molti, è una domanda giusta, ma resta fuori dal campo dello spiegabile per me. Ciò che posso dire è che vi ho riconosciuto subito qualcosa. L’italiano mi sembra naturale, nonostante faccia un sacco di errori e il mio il parlare non sia mai pulito, perfetto. Mi sento a casa in questa lingua, così come a Roma, anche se in fin dei conti la conosco poco. Ho studiato altre lingue, il russo, il francese, ma l’italiano resta speciale, forse anche per il legame che ha con una lingua antica come il latino che ho studiato per cinque anni all’università. Tutte le parole italiane mi interessano... non so, non è qualcosa di razionale.
Da figlia di diplomatici hai viaggiato molto, l’infanzia in Marocco, poi in Iran. Sei cresciuta ascoltando molte lingue, in che modo sono entrate nella tua scrittura?
Chiara: Sono cresciuta parlando italiano e francese e ascoltando l’arabo e il farsi che non conoscevo. Non so che guazzabuglio tutto questo abbia prodotto nella mia mente di bambina. In casa abbiamo sempre parlato italiano che è perciò, a giusto titolo, la mia lingua materna, il francese è stato invece la porta per la letteratura. A scuola usavo il francese ma quando scrivevo per me, lo facevo in italiano. Le altre lingue erano come una musica di sottofondo, estranea e familiare al tempo stesso: un coro polifonico, voci intrecciate che l’italiano ha racchiuso in sé. Un fumetto di un’autrice libanese trapiantata in Francia, Zeina Abirached, descrive il rapporto tra due lingue con un’immagine molto efficace: è come lavorare a maglia con due fili diversi che producono un’unica sciarpa. Le due lingue diventano inestricabili. Il suono delle parole è molto importante per te? Chiara: Quando non conosci una lingua, non puoi che ascoltarne il suono. Da piccola devo aver sviluppato inconsapevolmente una forma di orecchio musicale riguardo alle parole. Per questo amo leggere la poesia e ascoltare altre lingue. Nella metropolitana di Parigi mi capita di sentire lingue di cui ignoro persino le origini. Provo sempre a immaginare cosa si stiano dicendo le persone. C’è la dimensione musicale delle parole e c’è il gioco. La letteratura ha a che fare con queste due dimensioni. Per capire se una frase o un dialogo funzionano
A febbraio uscirà in America In other words (In altre parole), tradotto da Ann Goldstein, che ha già tradotto Elena Ferrante. Che impressione ti ha fatto rileggerti in inglese tradotta da altri?
Jhumpa: Sono gratissima ad Ann, ha accettato di fare un’operazione inusuale. Di fatto non avevo bisogno di un traduttore, è stata una mia scelta, come tutto questo percorso in italiano. Ma quando mi è arrivata la traduzione ho chiesto a mio marito per favore di leggerla. Ero riluttante. A Roma poi sono riuscita a leggere tutto con calma, ho corretto solo qualcosa qua e là. Come dice Chiara è importante la lettura a voce alta. Lo scorso autunno a New York ho letto e registrato In altre parole, per fare un audiolibro. Ho letto ad alta voce prima in italiano e poi in inglese. Mi ha aiutato a capire un sacco di cose. Sono riuscita a vedere lo scarto fra il mio italiano, sempre particolare, un po’ fuori schema, e l’inglese di Ann: talvolta riconosco qualcosa, sembra che sia la mia voce, talora assume invece un aspetto straniante. Sono tornata all’inglese tramite Ann, eppure mi sento ancora più distante. Non hai ricominciato a scrivere in inglese? Jhumpa: Ancora no. Ma ho deciso di tradurre un libro dall’italiano all’inglese. Un passaggio credo importante per tornare a pensare e a creare in inglese. Si tratta dell’ultimo romanzo Einaudi di Domenico Starnone, Lacci. Mi ha colpita molto, l’ho letto due volte; mi sono veramente trovata in quel romanzo. Sono passati quattro anni, tanti mesi di slancio verso l’italiano, una decisione radicale, una scelta molto forte, ora si tratta di affrontare un nuovo passaggio. Sono entusiasta, perché... vediamo dove mi porta.
Nel tuo percorso non ci sono solo l’italiano e l’inglese, ma anche il bengalese. Tre linee che si intrecciano, che danno tridimensionalità al tuo scrivere.
Jhumpa: Come dico nel libro, queste tre linee formano un triangolo, l’ho scoperto scrivendo in italiano, che mi fornisce una struttura e soprattutto una nuova prospettiva, un nuovo punto di vista per vedere questo mio panorama linguistico misto. Il triangolo è una forma complessa, anche se instabile. Tramite questo triangolo riesco ad accettare la mia condizione di orfana linguistica, di scrittrice senza una vera lingua madre, senza un vero punto di riferimento linguistico. Ne avevo due poi ho aggiunto l’italiano, così ho trovato questa “cornice” e io mi ci ritrovo dentro; rappresenta una nuova identità e mi permette di giocare un po’ fra il bengalese della mia infanzia, l’inglese della mia formazione, l’italiano dell’innamoramento ma anche della fuga. Anche se faccio sempre fatica l’italiano, per me, è la lingua della felicità. Nonostante la dimensione dolorosa, nonostante lo straniamento continuo, è ciò che provo quando cerco di esprimermi in italiano. È la lingua della leggerezza perché non c’è quella guerra costante fra il bengalese e l’inglese, la lingua che ha segnato la mia vita, almeno fino ad un certo punto.
Hai parlato di straniamento, ma cosa significa per te la parola straniero, così caricata di ombre dai partiti xenofobi?
Jhumpa: È la mia parola chiave, è la mia condizione, fin dall’inizio. È il mio destino e non c’è scampo per me. Perciò è importante abbracciare questo termine. Significa per me essere artista, scrittrice. Per creare devi sentirti in qualche modo straniero. Ti dà la chiave per vedere il mondo diversamente e questa è la dimensione creativa. Ho scoperto di recente uno scrittore italiano che non conoscevo, Carlo Cassola. Mi ha colpito una sua frase: «Amo la periferia più che la città, amo tutte le cose che stanno ai margini». Essere straniero è una condizione dolorosa, per gli artisti spesso è una scelta ma è anche una necessità, è una esigenza profonda per poter scrivere, dipingere, è un impulso che viene da dentro. Ovviamente è diverso per gli stranieri che si trovano in questa condizione non per scelta, che la subiscono essendo costretti ad andare in altro Paese.
Per te Chiara cosa significa questa parola?
Chiara: Ha una connotazione positiva. È l’altro da sé, portatore di novità, misterioso, sconosciuto. Spesso è colui o colei che ci rivela molto di noi stessi proprio per il fatto di provenire da altrove. Quello che sta accadendo in Europa ne è la prova: le nostre difficoltà di accogliere, di riconoscere la ricchezza insita nell’altro è specchio di un ripiegamento su se stessi, del dilagare dell’insicurezza e della paura, dell’incapacità di immaginare il futuro. Ne abbiamo tanto più paura quanto più stiamo diventando estranei a noi stessi. E questo sì mi fa paura.
Jhumpa, alla fine, che cosa ti avvicina a Chiara?
Jhumpa: Come me, Chiara vive fra varie culture, lingue. Siamo scrittrici, lettrici accanite e siamo madri; cerchiamo sempre di gestire vari mondi ed è difficile. Parliamo spesso di questa condizione, che non è un dilemma, ma non è neanche una passeggiata mettere in moto tutto. Il giardino persiano è un libro molto forte, è il ritratto spietato della famiglia. Mi ha colpito molto l’onestà. Chiara è una scrittrice che non ha paura, non segue il branco, mira all’essenziale. La sua scelta di andare via, di vivere anche un po’ a Parigi, di scrivere anche in francese e sperimentare è un ulteriore legame fra noi.