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Cecilia, in una statua il segno di un destino

Autore: ENZO DI MAURO
Testata: il Messaggero
Data: 13 marzo 2009

La ricca e prestigiosa iconografia intorno alla fanciulla romana Cecilia dal Raffaello della Pinacoteca di Bologna al Domenichino nella chiesa di San Luigi dei Francesi ha trovato il suo punto più alto e credibile in una scultura dell’artista barocco Stefano Maderno che non si smette di ammirare in Trastevere, il quartiere dove la martire cristiana visse e abitò con i genitori prima di convolare a nozze, assai controvoglia, col nobile Valeriano e prima dell’estremo sacrificio mediante decapitazione. A quella statua, e specialmente a quel volto ripiegato come a voler custodire per sempre la bellezza e la grazia di un incontro risolutamente voluto e cercato con l’unico, col vero Dio, Linda Ferri ha ora dato e offerto parole, vita, gesti, sentimenti, sconcerti, ostinazioni, ribellioni seppure nell’obbedienza a un destino, anzi a una luce che atterra e resuscita. Dal remoto, perduto terzo secolo e poi attraverso l’istantanea barocca fermata come dal vero, il bagliore di quell’esistenza nutrita dal mito e dalla leggenda assorbe tutto il quotidiano a lei e a noi lettori consentito. La procedura di Cecilia (edizioni e / o, pagg. 285, euro 18,00), vale a dire il suo schema, è semplice, lineare, privo di inciampi. È intanto un romanzo scritto in prima persona sotto forma di diario, diviso in tre parti, ognuna delle quali segnata da una diversa gradazione di luce.

Dapprincipio, si tratta di una luce indiretta, sghemba, per via di sogni che assediano l’adolescente inquieta e pronta a respingere le cose di senso comune, ad esempio le vulgate educative ufficiali e celebrative del tempo. Com’è stato possibile, domanda al precettore scandalizzato e incredulo per tanta tracotanza, avere potuto eroicizzare il pio Enea che, all’amore di Didone, ha preferito la fondazione di un impero? Quasi a cogliere qui, in questo peccato d’origine, la fragilità e la transitorietà dell’impresa e a indicare la supremazia inaudita di un altro impero che non è fatto per questa terra e che questa terra non sopporta. E tuttavia, per Cecilia, è ancora la stagione dell’incertezza, dell’esitazione, del dubbio, del timore di diventare donna e di andare in sposa. L’eternità le si presenta per frammenti, mediante la musica e la poesia. Nella seconda parte, già maritata, la fanciulla stenta a riconoscere la Cecilia di prima e persino la stessa sua grafia di un tempo, stretta ora nel tempo della schermaglia e di quel mistero che rimane per lei il matrimonio e il rapporto con l’altro, con l’estraneo, con l’“involucro visibile” di quei due corpi che si toccano lasciando, dopo, un senso di “solitudine” più grande e di reciproca repulsione. È, del romanzo, la sequenza più breve, al pari di una nube d’angoscia passeggera, pronta infine a lasciar posto alla luce fortissima, definitiva, coatta della grazia che viene a completamente rapirla, a spezzarla in due, a condurla alla vita nuova. Il sogno diventa visione, profezia. “Vedo il mondo”, dice, “per la prima volta”. Per la prima volta vede gli schiavi, i miserabili, gli ammalati, gli stranieri. L’arresto, gli interrogatori, il martirio rappresentano un’appendice inevitabile, si potrebbe aggiungere necessaria e urgente. Appunto: “Il cerchio si è chiuso. Fuori non esiste. Forse non è mai esistito. Non esiste Roma né io per lei”. Linda Ferri, in una nota, confessa di avere scritto Cecilia grazie a un “innamoramento” per questa figura di giovane donna che, a causa di una curiosa svista filologica, è diventata la protettrice della musica e del canto.