Molto si è scritto sulla Shoah, ma sul Porrajmos – lo sterminio di circa mezzo milione di rom e sinti nei campi nazisti – quasi nulla. Mancano soprattutto le fonti dirette. Il protagonista del romanzo di Gino Battaglia «La fortuna di Dragutin», per quanto grande sia il dramma a cui è sopravvissuto, non ha parole.
La fortuna di Dragutin» è il titolo dell’ultimo libro di Gino Battaglia, viaggiatore e studioso che a lungo ha lavorato sui temi della marginalità sociale e del dialogo tra le religioni e le culture. Il romanzo è uno spaccato di vita rom nel campo dove vive la famiglia di Dragutin, sopravvissuto allo sterminio nazista da piccolo, e ora anziano che vede attorno a sé la vita e le storie cambiare. Sul libro e sul tema, Confronti lo ha intervistato.
La fortuna di Dragutin. Dragutin per tutto il libro si chiede se la sua sia davvero una «fortuna». Riflette sulla durezza della vita e teme i cambiamenti in atto. Che ne è di questa sua fortuna?
Dragutin è sopravvissuto a un episodio dello sterminio degli zingari, il Porrajmos, quando era molto piccolo. Ora è uno dei pochi anziani (l’attesa di vita nei campi rom è molto bassa). Dunque è doppiamente un sopravvissuto. Questa sembra la sua fortuna. Dragutin confronta la sua fama di fortunato con la sua condizione e le vicende della sua famiglia, che vive un momento di trasformazione in mezzo a noi gagé. Il presente prefigura infatti il fallimento dei suoi progetti e delle sue speranze. Davvero, allora, che ne è della sua fortuna? Ma il protagonista del romanzo non è solo il paradigma della condizione di un certo gruppo umano. Dragutin, dicevo, è un sopravvissuto, ma chi di noi non lo è? Sopravvissuto a vicende anche casuali, alla morte dell’amico o del genitore, al tempo che passa. Qual è il significato di questa sopravvivenza?
Dragutin è un sopravvissuto che non ha parole. Non solo perché è rom. Ma anche questo è un aspetto drammatico della condizione dei rom: c’è una sterminata letteratura sulla Shoah, sul Porrajmos quasi nulla, e quasi nulla di fonte rom, di fonte diretta. Soprattutto, il sopravvissuto alla Shoah, per tanti motivi, diventa testimone, diventa profeta. Dragutin, per quanto grande sia il dramma a cui è sopravvissuto (lo sterminio di mezzo milione di rom e sinti) non ha parole. Come forse ognuno di noi. Solo una domanda: se questa sopravvivenza non sia un privilegio ingiustificabile pagato con la sfortuna degli altri. Dragutin, appunto, incarna il suo essere sopravvissuto, unico della sua famiglia all’eccidio. Eppure la sua storia gliela ricordano, gliela raccontano gli altri. Hai creato nel libro un contrasto tra ricordo personale e storia raccontata. Quante storie vivono nel libro, e che rapporto hanno tra loro?
Quello dei rom è un popolo che vive anche di storie. Abituati a pensare a loro come problema sociale, trascuriamo tanti altri aspetti. Ho passato molti anni in mezzo a loro lavorando alla scolarizzazione dei bambini con la Comunità di Sant’Egidio. È stato un modo per entrare nelle kampine e nelle baracche, per incontrare e ascoltare. Ascoltare soprattutto. Non diversamente da noi, ma con mezzi più poveri, i rom cercano di capirci qualcosa in questo mondo complicato. Il libro è anche il tentativo di far risuonare il flusso di coscienza che coinvolge questo piccolo popolo, il gusto di chiacchierare, il racconto che si snoda tra stupore e rabbia, tra amarezza e comicità. Allora, è vero, il libro contiene in realtà tante storie, come rivoli di quella corrente, molte di queste raccontate, per così dire, non da me ma dai personaggi.
Non manca la riflessione teologica tra i personaggi. Capitolo centrale è quello della festa, per la santa protettrice, il momento della benedizione e della «vita». Quale rapporto tra festa, Dio e la vita futura?
Si tratta in realtà di una tradizione balcanica, quella della festa di famiglia, la Krsna Slava, che però i rom di religione cristiano-ortodossa hanno fatto propria. In una vita religiosa povera di manifestazioni esteriori, è un momento centrale. Si carica anche di significati sociali: è il giorno della convocazione di tutte le relazioni attorno a quella famiglia e anche il coagulo delle tensioni e delle prospettive. Ma è anche il momento della centralità di Dio e quindi delle domande sulla vita, sulla morte, sul futuro, sulla fortuna. Per questo è tanto più doloroso per Dragutin avvertire le crepe nella tenuta della sua famiglia. La festa è anche il perpetuarsi attraverso le generazioni di un legame con l’Oltre, con l’Eterno. Per questo la festa è l’occasione, come dicevo, per le domande, che sono un altro aspetto del libro, in cui ci ritroviamo, noi e i rom, così vicini.
Ulteriore elemento di fondo del libro è il contrasto tra generazioni. Quelle giovani lottano contro le tradizioni per «fare a modo loro». È segno di speranza o di peggioramento?
Nel mondo contemporaneo, ogni generazione, in ogni contesto sociale e culturale, ha con la precedente un rapporto complesso. Ogni generazione compie un pezzo di strada in più. Ma per andare dove? Questo è il punto. Noi stessi ci troviamo a dubitare ormai di un’idea del progresso inarrestabile dell’umanità verso il meglio. Per i giovani rom il presente è particolarmente frustrante: è una terra di nessuno, un’attesa quasi senza oggetto, né integrazione né possibilità di essere se stessi. In una società che sembra accettare tutte le diversità, le trasgressioni, i rom sono diversi ma non sono accettati. I giovani finiscono per essere in conflitto con il loro ambiente oltre che con il nostro. Qui c’è anche la nostra responsabilità collettiva e la responsabilità della politica. Forse non è questa la sede per parlare di questi problemi, che pure il romanzo evoca. Dico solo che un popolo di giovani e di bambini potrebbe cambiare molto, attraverso la scuola, attraverso un serio avviamento al lavoro. Stiamo parlando di 70-80mila persone nei campi italiani, di cui la metà sono minori. Chiusa la parentesi, mi pare che si profilino nel mondo dei rom aspettative e speranze, incarnate soprattutto dai giovani, di maggiore inserimento, soprattutto di superamento di quelle contraddizioni del loro mondo, che non è facile affrontare seriamente finché la situazione è così polarizzata e ostile nei loro confronti. Se i giovani rom non trovano nella nostra società una sponda al loro desiderio di una vita meno precaria (vogliamo dire più normale?), sarà sempre impossibile per loro essere, appunto, normali.
Perché è importante per lei aver scritto un libro sui rom?
Quello dei rom in mezzo a noi è un tema sul quale non si riesce a ragionare con la testa lucida. Mi ha sempre colpito come il tema fosse assente anche dall’orizzonte della sinistra, se si esclude qualche eccezione, e come le prassi delle diverse amministrazioni fossero sempre le stesse: campi sosta (ma sono nomadi davvero, i rom?) e sgomberi. Nient’altro. Per le chiese è diverso, mi pare. Ma anche qui si tratta di esperienze di punta. Potrebbe contribuire la letteratura a suggerire un punto di vista diverso? Potrebbe cioè la finzione (perché di questo si tratta) dire qualcosa di umano su coloro di cui non si riesce a dire altro che male? Io non pretendo di dire chi sono davvero i rom, oltre il pregiudizio, oltre le nostre rappresentazioni, buone o cattive che siano. Oltre le loro rappresentazioni. Un racconto dice una cosa, alcune cose, dell’oggetto di cui parla. Questa cosa è vera, come è vera una fotografia, che coglie un’espressione, un momento particolare, un taglio di luce. La verità poi è fatta di tante verità, anche in contraddizione tra loro, ma che non debbono essere considerate come contrapposte ma semmai complementari. La realtà è sempre complessa. So bene che nei campi c’è altro, oltre quello che ho raccontato, e c’è anche altro che io non so. Ma ho cercato solo di raccontare quello che appare quando ci si trova tra i rom, fuori dai ruoli definiti di zingari e gagé.
Insomma, il contrario della verità è la menzogna non la finzione. La finzione non è invece un modo per dire una verità che altrimenti non si può dire? D’altra parte, ciascuno costruisce la sua identità: cioè ogni individuo si crea dei personaggi, di cui riveste i panni a seconda delle circostanze. Ovvero glieli cuciono addosso gli altri. È il problema dei rom in mezzo a noi. È il problema di Dragutin: sono gli altri a dirgli chi è. Dragutin, il fortunato. Dragutin, il furbo... Alla fine, la maschera rivela, non nasconde, qualcosa della persona: i suoi dolori e le sue passioni.