"Cos'è il silenzio? È utile parlare?
Ci sono altri modi per dire la verità senza muovere le labbra?"
Roma, piazza Vittorio. Attorno a un misterioso omicidio si raccolgono dieci testimonianze, dieci voci che convivono in un microcosmo poliedrico. Raccontano la verità che i loro occhi hanno saputo conoscere, le lotte quotidiane che li occupano, ma nonostante tutte le versioni derivino da punti di vista diametralmente opposti, esse concordano su una medesima posizione: Amedeo, il principale sospettato, è innocente. "Amedeo è come un bel porto da cui partiamo e a cui torniamo sempre", dice Parviz, uno dei protagonisti del libro di Amara Lakhous. Amedeo è il personaggio attorno al quale si muove tutta la narrazione, l'uomo che tutti ammirano ma che nessuno conosce approfonditamente: solo questa indeterminatezza può salvarlo dalla noia dell'aggettivazione, il prodotto di un automatismo che induce il cittadino medio a catalogare chiunque lo avvicini in "amico" o "nemico", in maniera ovviamente arbitraria.
Ad unire le testimonianze che compongono quest'opera, vi è solo l'eco lontana di un'emarginazione più radicata di quello che si potrebbe comunemente intendere, una marea di diffidenze e rancori che bagna tutte le culture in cui si imbatte, senza distinzioni, a prescindere da qualsiasi futile pretesa di superiorità. Ogni personaggio è un nucleo chiuso in se stesso, ognuno costretto nella propria trincea, solo Amedeo sa scivolare tra una relazione e l'altra, senza ipocrisia, ma con la sapiente capacità di compenetrare tutte le civiltà che incontra: egli non vive in nessun luogo, è straniero a qualunque confine, giacché abita soltanto la lingua che ha scelto, e che ha appreso con voracità. Ma quello che tutti si chiedono è: dove è fuggito Amedeo? E soprattutto, da cosa?