Sono due giorni che Raymond Dujeux non riesce a riposare nemmeno per un secondo. Il suo problema risiede nella piazza sulla quale affaccia l’ex caserma in cui è obbligato a custodire da solo l’ultimo prigioniero dopo la guerra, quella che sarebbe stata chiamata Grande, in un’estate asfissiante che sta falcidiando la Francia del millenovecentodiciannove. Il prigioniero è Jacques Pierre Marcel Morlac. Un ventottenne eroe della trincea. Che ha compiuto un’azione che l’ha portato in carcere. Un’azione della quale non si pente. A giudicare il suo caso, il maggiore Hugues Lantier du Grez. Un coetaneo, o poco più. Il problema che toglie la pace a Dujeux, invece, è figlio di una mamma pastore della Brie e di padre ignoto. È il cane di Morlac. Lo aspetta fuori dalla prigione. Senza smettere mai di abbaiare…
Jean -Christophe Rufin è un viaggiatore e un diplomatico. Nel 2001 ha vinto il prestigiosissimo Premio Goncourt, è stato ambasciatore in Senegal e, ultima cosa (ma decisamente non per importanza), ha fondato Medici senza frontiere, forse in assoluto l’organizzazione che più di ogni altra si impegna perché il nostro mondo così complicato, ingiusto e diseguale sia un posto migliore, almeno un po’. Inoltre, scrive evidentemente bene: in particolare, Il collare rosso è un ottimo libro. Non solo perché è poetico, semplice, lineare e limpidissimo, ma perché è compiuto e coerente: nel corso degli undici capitoli, di rara grazia e asciuttezza, Rufin racconta una storia molto potente. Finalmente, tra l’altro, il lettore si trova di fronte dei personaggi maschili sfaccettati, autentici, credibili, e il tema centrale, la lealtà, la fedeltà, è trattato senza retorica. La fedeltà è parente prossima della fede, ma in questo caso è una fede non cieca, adulta, piena di dignità, di autodeterminazione e di ideali.