Qual è la fortuna di Dragutin? È l’interrogativo che il lettore si pone già all’inizio del libro e la cui risposta scoprirà a poco a poco. La sua fortuna è la stessa vita, la sua esistenza, iniziata fin da bam bino, quando sopravvive alla persecuzione nazista che ha devastato la sua famiglia e la sua gente, fino all’ultimo, quando, ormai vecchio, sopravvive ai più gio vani, che soccombono alle tragedie e devastazioni che accadono nel campo rom. Le sue “ricchezze” sono la stessa “vita” e la “speranza” che la sua difficile vita, pri ma o poi, prenderà un altro corso, in un nuovo campo o in Jugoslavia, nella sua terra dove ha comprato una casa e dove spera di ritornare insieme con la sua gran de famiglia.
Il teatro dove si svolge la narrazione è appunto il campo rom, dove incarnano la loro parte i soggetti collettivi, le famiglie, che vivono e si muovono nelle “vie” tracciate dagli oggetti e le cose, all’interno e all’esterno delle “campine”, con le loro verande che si allungano continuamente, dove si imbandiscono le tavole e si svolgono le feste, con le cucine e le stufe fatiscenti e le macchine, che vanno e vengo no dalla città. Il campo è la scena del tea tro di tutte le storie delle famiglie coin volte nelle feste, religiose (la più impor tante di Santa Paraskeva) e non, che si snodano tra mille difficoltà di “ordinaria precarietà” provocate dall’ambiente ester no e dal clima ostile.
Nella narrazione della vita del campo rom e dei personaggi che lo abitano, l’au tore coglie i sentimenti che li animano: la rabbia, l’amore, il pudore, la dignità, l’orgoglio, l’onestà, espressi con forza e spontaneità.
Le storie di “vite parallele” delle famiglie rom si incrociano con quelle della fa miglia di Dragutin: la moglie Desanka, il figlio Vule e, soprattutto, la figlia Jàgoda. È questa figlia “ribelle” che forse costituisce l’altra fortuna di Dragutin. Jàgoda, rompendo le leggi della famiglia e del campo, potrà avere la “fortuna” di fare una vita “altra”, di donna libera di compiere le sue scelte, al di fuori della cultura della sua famiglia e della sua comunità.
Già fin dalle prime pagine, si impongono come protagonisti, sotto la pioggia incessante, l’acqua minacciosa del fiume, l’umidità, che alla fine piegano gli uomini al loro volere. Un senso opprimente di impotenza e un odore aspro e appiccicoso di umidità e di fango pervadono anche il lettore, che non vede l’ora che esca il sole per illuminare ed asciugare tutto, ma non sarà così.
Eppure in tutta questa desolazione le donne e gli uomini trovano il modo di in tessere discorsi profondi che diano un senso alla loro esistenza: come Dio inter viene nelle faccende umane; si tratta di un unico Dio o sono molti; perché esiste il Bene e il Male e come siano possibili entrambi; che cosa sia giusto e ingiusto.
Anche le relazioni sociali hanno un significato profondo e reale; sono manifestazioni di solidarietà nelle disgrazie e nella morte, di gioia nella condivisione
della festa, di cura e tenerezza nei con fronti degli anziani e dei bambini che, contrariamente ai nostri stereotipi nei confronti della cultura rom, occupano il primo posto nelle scelte individuali e collettive. È per salvare la sorellina Sterlina e il padre dalla furia dell’acqua, che invade e spazza via il campo rom, che il giovane Jovan dà la vita, senza esitazione al cuna.
Sullo sfondo della storia di Dragutin ci sono due conflitti, il più remoto della prima guerra mondiale e quello più recente dei Balcani: egli è sopravvissuto ad entrambi. Ma il protagonista del racconto vive con un respiro corale, che è espressione di tutta la comunità della quale Dragutin è il leader carismatico, riconosciuto e stimato.
La comunità ha le sue norme e il suo codice, non sempre così ovvie e scontate come lo sono gli stereotipi della società dei gagè. Per questo il testo si propone come lettura “obbligata” per tutti gli operatori sociali, italiani ed europei, e per tut ti coloro che vogliono conoscere ed han no il compito di programmare e gestire le politiche sociali e i servizi sociali per il composito “universo” dei rom in Italia e in Europa.
Carmelina Chiara Canta (Ordinaria di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi dell’Università di Roma Tre)