Gino Battaglia ci conduce tra le kampine di un campo rom, ai margini di una metropoli italiana e della società, dove si dipana il destino della famiglia di Dragutin e dei loro vicini.
Malabar, il suo libro precedente, riportava i lettori nel XVI secolo, più precisamente a fianco di Matteo Ricci, sacerdote gesuita, destinato alla missione in Cina, che vive in India la sua formazione. Da un romanzo storico a un romanzo d’attualità come La fortuna di Dragutin: come mai questo cambio di genere letterario?
In realtà c’è qualcosa che unisce l’uno all’altro: è la mia personale esperienza; nel caso di Malabar l’India, dove ho fatto parecchi viaggi, per studio, lavoro e amicizia; in questo caso la frequentazione dei campi rom tra Roma e Napoli, impegnato soprattutto nel sostegno alla scolarizzazione dei minori con la Comunità di Sant’Egidio. In entrambi i casi si tratta di riflessioni sulla mia esperienza. Anche Malabar, a suo modo, parla del mondo di oggi, dell’incontro con l’altro e delle sue contraddizioni, dei suoi rischi. In quel caso è l’altro che è l’Oriente, che ci attrae, che ci respinge, che ci cambia anche se non lo vogliamo o non lo capiamo. Qui, ne La fortuna di Dragutin, parlo di un popolo antico, che si è impigliato in un presente – per loro e per noi – frustrante, conflittuale, ambiguo. Un presente che è una terra di nessuno, che non è né questo né quello, attesa senza oggetto, paura senza causa o con mille cause, né integrazione né possibilità di essere se stessi. Anche qui, insomma, le contraddizioni dell’incontro con chi è diverso da noi. E in una società che sembra accettare tutte le diversità, le originalità, le trasgressioni, in realtà i rom sono davvero diversi (e non accettati).
I grandi classici della letteratura, pensiamo a Hugo, Gautier, Cervantes, hanno contribuito a diffondere e perpetrare gli stereotipi generalmente attribuiti al protagonista del suo romanzo, il popolo rom, oppure sono il risultato della storia sociale dei secoli scorsi?
Direi l’uno e l’altro: che sia la figura romantica del figlio del vento o lo stereotipo negativo dello ‘zingaro brutto sporco e cattivo’, il rom è sempre stato guardato attraverso una lente deformante. A questo anche la letteratura ha contribuito. Ovvero è stata influenzata dall’immaginario del suo tempo. Il rapporto con i rom risente di qualcosa di ancestrale, qualcosa che sembra sia nel nostro inconscio collettivo. È come l’orco, la strega, il lupo cattivo. Pensi solo alla leggenda degli zingari che rubano i bambini, mai verificata (anche con gli strumenti di indagine sofisticati di oggi) eppure così solida. Per tornare alla sua domanda, certo, c’è una base dello stereotipo nella storia più o meno recente. Soprattutto, almeno in Italia, c’è la miopia di tenere alcune decine di migliaia di persone (non sono più di 60/70mila, in un paese così grande) in una condizione di marginalità assoluta. Debbo dire che è stata soprattutto una scelta nostra, magari fatta ‘all’italiana’, cioè senza scegliere.
Potrebbe contribuire la letteratura stessa a dare una svolta in senso contrario?
Mi fa una domanda molto impegnativa. Questo è stato anche il dilemma di questo romanzo. È vero che si dice che il romanzo è stato uno strumento di interpretazione della realtà. Ma è vero anche che questa sua funzione è in una profonda crisi. Io, che oltre tutto non sono rom (ma neppure un rom lo potrebbe), non pretendo di dire chi sono davvero i rom, oltre il pregiudizio, oltre le nostre rappresentazioni, buone o cattive che siano. Un racconto dice una cosa, alcune cose, dell’oggetto di cui parla. Non può dirle tutte. Non è un saggio scientifico. E anche il saggio scientifico ha bisogno di un’ipotesi di ricerca, che domani sarà superata, come lo sono stati anche gli studi sui rom del passato. Un racconto dice una cosa. Questa cosa è ‘vera’, come è vera questa fotografia, che coglie un’espressione, un momento particolare, un taglio di luce. La verità poi è fatta di tante verità, anche in contraddizione l’una con l’altra, ma che non debbono essere considerate come contrapposte ma semmai complementari. La realtà è sempre complessa. So bene che nei campi c’è molto altro, oltre quello che ho raccontato, e c’è anche altro che io non so, ma cerco solo di raccontare qualcosa che appare, quando ci si trova tra i rom, fuori dai ruoli abituali di ‘zingari’ e ‘gagé’.
Un senso d’attesa fa da sfondo alla vicenda in cui si dipanano i destini di alcuni degli abitanti di un campo rom. I momenti della vita quotidiana si alternano tra situazioni in cui ferinità e rabbia rischiano di esplodere e conversazioni dagli argomenti più disparati molto simili, pur nella loro semplicità, ad esercizi di filosofia. Pensa che si possa definirli tali?
È proprio quello che volevo dire! Può sembrare retorico, ma quasi nessuna delle parole dei dialoghi che ho scritto è inventata. Per anni ho avuto occasione di ascoltare, di discutere, di essere testimone di momenti belli e brutti, drammatici o felici, ma soprattutto di conversare. In questo mi si è mostrato un volto dei rom che non conoscevo, che non conosciamo: sono uomini e donne, ragazzi (tanti ragazzi e bambini), che con strumenti poverissimi (più poveri dei nostri: anche la loro cultura è roba vecchia nel nostro mondo) cercano di capirci qualcosa di questa vita. In questo non sono tanto diversi da noi.
Lo spunto per questo libro viene dalla sua esperienza professionale e dalle tematiche di cui si è occupato nel suo percorso di esperto di dialogo interreligioso?
Ho lavorato per diversi anni, come appartenente alla Comunità di Sant’Egidio, come dicevo, al sostegno alla scolarizzazione dei bambini rom. Ho anche fatto scuola ad alcuni di loro, in maniera informale. Sono quelle che si chiamano Scuole della Pace di Sant’Egidio. Questo mi ha consentito di entrare come amico nei campi, di avere un rapporto di amicizia con alcuni degli adulti, genitori dei bambini e altro. È questo soprattutto che mi ha dato lo spunto per il libro. Poi, certo, occupandomi da tempo del dialogo tra le culture e le religioni, sento questo rapporto del mio mondo con i rom – così complesso, così difficile, così tanto inquinato da ostilità – come un banco di prova. Se la nostra società non è capace di accogliere un gruppo di persone così piccolo, problematico quando si vuole ma piccolo, può dirsi davvero aperta, realmente pluralista, giusta o, che so, democratica?
Quali lettori in particolare vorrebbe che leggessero La fortuna di Dragutin?
Come autore, direi tutti! Al di là del tema, magari controverso, questo libro parla dell’attesa di noi tutti, della vecchiaia, della difficoltà di amare chi ci sta vicino, dell’impotenza del proprio amore quando si ama, e di tante altre cose. Ma – è quasi ovvio – vorrei che lo leggesse chi ha risentimento verso i rom. E purtroppo l’antipatia contro di loro mette d’accordo molti, quasi tutti. Mi ha sempre colpito come questo problema sia del tutto assente dall’orizzonte della sinistra italiana, che in questo segue le idee di tutti. Mi lasci dire che, se non fossimo così pieni di pregiudizi contro i rom, si potrebbero anche affrontare, insieme a loro, le contraddizioni del loro mondo, l’accattonaggio che coinvolge i bambini, la condizione delle donne, i matrimoni precoci, certi comportamenti devianti, l’alcolismo, e così via, problemi che riguardano alcuni, e che il pregiudizio vuole che siano di tutti. Il nostro anti-gitanismo è un alibi per i rom. Loro sono i poveri che non fanno compassione. Spero che dalla lettura del libro qualcuno trovi motivi autentici (intendo non retorici o ‘buonisti’) per avere un po’ di simpatia o solidarietà per loro.