Ho un debole per un’etnia, per i rom, nella vita, come nella professione. E aspettavo che qualcuno ne raccontasse in narrativa, un gagò o gagè, uno che viene da fuori, nella loro lingua, con lo spirito esatto, intraducibile se non per pochi eletti. Così Gino Battaglia possiamo considerarlo tale, con il romanzo “La fortuna di Dragutin”, pubblicato da E/O, in libreria dall’11 luglio. Il romanzo è un’epica superba, contemporanea, di un patriarca, un sopravvissuto, prescelto dalla sorte, scampato ai rastrellamenti, condannato a scontare la sua fortuna, “La fortuna di Dragutin”, in un campo di una metropoli del nostro paese. Non verosimile, vero, e nello stesso tempo romanzo che mantiene le promesse, la migliore tradizione letteraria, la visionarietà e il climax di una vita sommaria eppure eroica, il senso di straniamento e la gioiosa miseria in fondo di un popolo, inafferrabile se non alla poesia, all’epos circense e felliniano, alla nostalgia di Milos Forman. Dentro troviamo un mondo, con le cerimonie, i passaggi, i suoi frequentatori, tutti connotati mirabilmente, tutti fedeli al paesaggio malinconico che ho incontrato nei film di Kusturica, drammatici e grotteschi, dove ho pianto e riso allo stesso tempo, con la medesima amarezza, il medesimo trasporto.
Aspettavo questo romanzo, una continuità di quella poetica che mi è così cara: lo spaesamento. I personaggi raccontati da Gino Battaglia sono antichi, e insieme prossimi a tutte le sciagure, li abbiamo visti un mucchio di volte, ignorati un mucchio di volte, nelle nostre città. Ora l’autore li inchioda uno per uno. Sono uomini antichi, patres perlopiù, e le donne morbide e docili, sono il sunto e le radici. Troviamo il colore inaudito di un popolo, le loro feste, il dramma conservato in ogni dettaglio, scandito da un bicchiere di slivovitz, un ghigno in onore della sorte. E dove c’è un campo chissà perché tuona di solito il cielo, frana la pioggia sulle baracche, i tram sferragliano da lontano. Era la storia che aspettavo e che vi invito a leggere.