L’ultimo romanzo di Gino Battaglia, prete della comunità di Sant’Egidio, mette in prosa anni di familiarità con il popolo rom
“È la festa!”, si dice Dragutin. “È Dio che è contento di noi. Quanti giorni passati come un senzadio! Per un giorno pensiamo a lui. E, forse, è solo per questo giorno che la mia vita continua. Se non ci fosse questa festa forse cadrebbe il mondo. Quanti giorni passati senza pensare a Dio…”.
Dragutin Jovanović è il bambino che la fortuna ha baciato una volta, ai tempi della Seconda guerra mondiale, sottraendolo – lui solo, eroe inconsapevole del popolo rom – a un massacro dei nazisti. Di quella notte l’uomo, ormai vecchio, non ricorda altro che il cadavere del cane che accompagnava lui e gli altri bambini. E l’ultimo monito dalla voce degli adulti: “restare insieme”. Per salvarsi.
A tre anni dalla candidatura al Premio Strega con Malabar, Gino Battaglia, sacerdote della Comunità di Sant’Egidio, torna in libreria con un romanzo in cui mette in prosa anni di familiarità con il popolo rom, ne fa protagonista un vecchio dai baffi ingialliti, marchiato a vita da una memoria collettiva che da sempre lo vuole “fortunato”, Dragutin il furbo, Dragutin il sopravvissuto. Che si chiede ancora che fortuna sia, sopravvivere alla propria famiglia.
Piegato dai dolori alle ossa, al pari della sua roulotte rattoppata e dei destini degli altri personaggi Dragutin è confinato dentro un campo sosta rom della periferia urbana italiana. Il lettore non riuscirà a dare al campo una collocazione. Semplicemente perché non c’è, per gli Jovanović, in un altrove cittadino, nelle strade dove ci si perde “a chiedere” o nei bus stipati di visi ostili agli “zingari”, una possibilità di esistenza. La prigione a cielo aperto di Dragutin e della sua gente potrebbe stagliarsi ai margini di una qualsiasi città italiana, lo skyline di palazzoni conglomerati, un rivolo d’acqua, risorsa e sfogo per uomini e animali. I giovani rom le sognano, le ragazze non rom, le gagé, ma sanno che sono fuori portata. Così come perdono la testa per auto con le gomme a profilo ribassato e si regalano lo scintillio di un incisivo rivestito d’oro. Demodé, ma pur sempre capace di una certa attrattiva.
Restare vivi, restando insieme, ovunque ci si trovi: per il patriarca è un fatto di sopravvivenza e di coscienza di popolo. Eppure, il campo non è che un insieme di solitudini paradossali e un po’ balorde, la sosta fangosa per semieroi impegnati a sopravvivere a se stessi: c’è Miriana, livida e disperata come una Medea, abbandonata alla miseria dall’uomo che si era scelta contro ogni imposizione. E Vukašin, bottiglia e coltello facili, che non muove un dito senza imprecare contro la bella moglie Mina. E Milan, che lotta per non sembrare uno zingaro, i baffi lindi e due figlie a scuola, ogni giorno: “Che uomo sei, se sfrutti i bambini? – dice – Se non hai i soldi, lavora, fa’ qualcosa. Prendi il mitra e fai una rapina, ma lascia stare i bambini”.
La fortuna di Dragutin è per molti versi un romanzo dell’identità. A più riprese perduta, ricostruita, subìta, rinnegata. Invocata. La festa annuale di Santa Paraskeva è principio unificatore e ipostasi di questa collettività fatta di esistenze sfilacciate, disperse dalle guerre e, talvolta, dal sogno di una vita migliore, sempre annebbiate dalla nostalgia della casa natale e tuttavia mai decise ad affrontare il ritorno in una terra, la Jugoslavia, che di quel che era ha perduto anche il nome.
La celebrazione della Slava, la festa del santo patrono della famiglia, che per l’ortodossia serba e balcanica rinsalda in un vincolo celeste le vite degli avi e dei pronipoti, è per il vecchio Dragutin l’appuntamento sacro con una trascendenza che lo ha salvato e da cui sente insondabilmente dirette le sorti dei suoi cari. Perché, ribatte, lo dicono tutti, “non si può vivere come senzadio”.
Fortuna e Provvidenza si scontrano nella coscienza di Dragutin, che, delle poche certezze che ha, non riesce a far forti i suoi figli. Ricco solo della pietà che gli fa celebrare solennemente la santa, quello del vecchio è uno sguardo dolente su un’identità - una sola nella varietà del mondo rom - vittima dei tempi, che fatica a centrarsi in se stessa. Se la città oltre i confini del campo nulla può sulle ricette tradizionali della festa, né modifica l’ordine delle fotografie attaccate alle pareti ammuffite delle roulotte, le kampine, questa fissità ricostruita si scontra in una lotta impari con destini, e perfino una geografia, che cambiano sotto lo sguardo di tutti. Anche la pioggia, la pioggia che è benedizione e vita, nel campo non produce che melma, un torrente grigio di fango da cui tutto, escrementi, ori, immondizia e esistenze, può finire travolto.
L’operazione che Battaglia fa con La Fortuna di Dragutin è restituire l’umano al ghetto. Sposare lo sguardo del vecchio slavo è accettare l’invito ad una prossimità con il mondo rom, frequentarne, tra i vapori di prugna della grappa slivovitz, slang improbabili e Coca Cola, ferite e crudezze da cui nessuno, neppure bambino, è risparmiato. “Questo Dio, chissà se esiste davvero” si chiede la figlia Svetlana. Ed è forse un Dio sbagliato, il dio degli amici “turchi”, i rom musulmani, che vivono pochi passi più avanti? Intorno ai vapori delle kampine riscaldate a fornelli e stufe di ferro si addensa ogni domanda fondamentale. E le risposte della vita: mentre la comunità a fatica mette via i dissapori in onore della Slava, la bella e ribelle Jàgoda, figlia minore di Dragutin, trova nell’amore del giovane “turco” Moharem – contro la tradizione degli avi e oltre l’orizzonte del campo – una speranza di vita.