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DENTRO E FUORI

Autore: Rocco Fischetti
Testata: Minima & moralia
Data: 23 luglio 2014

Bohumil Hrabal è nato a Brno quando la Moravia era ancora parte dell’impero austro-ungarico, è cresciuto durante gli anni dorati della repubblica di Masaryk, ha vissuto il nazismo e il protettorato di Boemia e Moravia, il comunismo cecoslovacco delle purghe, la primavera di Praga, la repressione brezneviana, la dissoluzione dell’Urss, la nascita della Repubblica Ceca. Una decina di anni dopo la caduta del muro di Berlino si è ucciso.

Eppure rispetto alla storia non si capisce bene dove sia stato tutto il tempo, se intrappolato in una sorta di personale deriva o invece perfettamente al centro degli eventi. Non era tra gli intellettuali direttamente coinvolti nel ’68 praghese né tra i firmatari della Charta 77 ma era uno dei pochi che a Praga, dopo l’invasione del Patto di Varsavia, poteva ancora pubblicare. Nel frattempo i suoi capolavori uscivano in samizdat e all’estero.

Ha esordito nel romanzo a cinquant’anni con un controllo incredibile, vertiginoso della prosa, tra le più originali, vitali e colte del Novecento.

Pensare oggi a Hrabal, nel centenario della nascita, mi fa venire in mente l’edizione della Collana Praghese di e/o di Ho servito il re d’Inghilterra che è il libro della mia infanzia e della mia adolescenza nonostante l’abbia letto solo a vent’anni.

Potrei scrivere un pezzo stucchevole, dilettantisticamente à la Hrabal, la storia di un lungo ricordo deformato di com’è stato passare per anni davanti alla libreria dei miei e incrociare lo sguardo con quello della costa del libro – ho almeno dieci ricordi vividissimi e molti altri sfocati della mia manovra intima di avvicinamento – ma in definitiva quello che oggi mi rimane, ed è la mia questione ancora aperta con Hrabal, è la strana sensazione di continua presenza e al tempo stesso di un’assenza dolorosa e fuori luogo non appena prendo in mano un suo libro.

Quasi un senso di scomodità nel ripensare al passato, a un dato periodo di tempo in cui vivevo inconsapevolmente con alcuni scrittori che erano solo nomi sugli scaffali di casa.

Cosa vuol dire quando l’intero universo dei libri di uno scrittore si compie, si richiude per sempre un certo giorno della tua vita mentre stavi facendo chissà cosa?

Se ci penso, se qualcuno tira fuori il suo nome o se lo vedo in libreria, per me Bohumil Hrabal è la scena nelTenero barbaro in cui lui e Vladimir Boudník si toccano le mani dalle parti opposte del muro nella casa di Liben.

Mi capita una cosa analoga con David Foster Wallace. Nel suo caso penso automaticamente alla scena del pub nel Re pallido con il dialogo infinito tra la strafica dell’ufficio e l’uomo senza emozioni, in cui a un certo punto si scopre che lui sta levitando sulla sedia.

Cos’hanno in comune queste due scene?

Qualcosa di più profondo della sensazione immediata di un abbraccio caldo da ogni lato, qualcosa che supera l’impressione che siano le cose più umane, le cose con più calore mai scritte. Se facciamo attenzione a come questa umanità reagisce con la nostra lettura ci rendiamo conto che si tratta di un calore in torsione, suppliziato in cui l’apice dell’empatia strascica improvvisamente in alto e in avanti in una sorta di coda aliena al contrario; il segno di un’intelligenza fuori dai segni dei sentimenti, un riflesso postumo di gelo.

In questo senso credo che le poetiche di Hrabal e di Wallace coincidano perfettamente, nella loro capacità unica di gestire una cosa senza nome che occupa la zona di scambio tra il dentro e il fuori in cui giochiamo la partita del nostro tempo.

Di quest’ultimo strano stadio evolutivo nel quale da qualche decennio è entrato Homo sapiens sapiens – l’uomo metafisico che sa di sapere – già mutatosi in Homo sentiens sentiens – l’uomo privo di metafisica che sente di sentire (l’analfabeta emozionale iperalfabetizzato di sé, incapace di fare un passo al di fuori di sé) – e più recentemente in Homo videns videns – l’uomo oltre la metafisica che vede di vedere (i concerti o il mare attraverso lo smartphone) – pochi possono parlare meglio di Hrabal e poi di Wallace.

Osserviamo le loro strategie nelle due scene di prima.

Di fronte al continuo allarme antiaereo della percezione Hrabal si nasconde nel rifugio alzando il muro della casa di Liben, Wallace fa levitare il suo personaggio, lo alza in volo nel pub oltre le bombe; se invece si gioca a ignorare l’allarme Hrabal lo esorcizza attraverso il collasso sintattico, Wallace rilancia e sovrasta il rumore con l’implosione di Infinite Jest.

Entrambi possono continuamente scegliere quale gradazione assumere dello spettro dentro-fuori, ma al di là di brevi sortite verso un estremo o l’altro si piazzano nel centro esatto; come se la loro collocazione naturale fosse da sempre nella casa Na Hrazi Vecnosti (sull’Argine dell’Eternità), nel luogo geometrico in cui il segmento è tangente alla circonferenza, in cui coesistono l’identità dei punti e la separatezza degli elementi, il contatto e la solitudine, in cui la linea non penetra il cerchio ma ne ricalca il contorno, senza mai intersecarlo.

È nel premere insistentemente lungo l’orlo della circonferenza che la scrittura di Hrabal definisce il proprio senso, nella capacità di sfilacciare il cerchio e di produrre vertigini che regalino un’impressione di analogia col mondo: solo perdendo il controllo a folle velocità lungo la spirale si può affrontare la Storia, attraverso le febbri, le ubriacature, gli annegamenti veri o presunti.

Allo stesso modo e insieme in modo apparentemente opposto, esercitando un controllo folle che neutralizza le incognite, Wallace riesce a creare una scrittura che partecipa del mondo.

Questi due scrittori che vorticano lungo il contorno della stessa moneta non riescono a smettere di parlarci di una cosa importante che non può essere detta ma che volendo possiamo intuire. Si rivolgono a ciascuno di noi, cantano come le sirene dal cuore dell’opera che si è richiusa perfettamente su di loro.