Sesso, perversioni, un velo di rossetto sulle labbra che riporta alla mente una madre in apparenza assai sfuggente, adorna di perle e di stole color testa di moro a velare preziosi abiti da sera, chiusa in una religiosità proterva e nel dolore dell’abbandono e della rinuncia all’amore vero, quello con la A maiuscola, quello che, se si è fortunati, capita una volta nella vita, infuoca le viscere e fa girar la testa e il cuore.
E poi evasioni nemmeno troppo innocenti, rimembranze di infanzia, di balletti sulle punte con le braccia in alto, ascoltando musica classica insieme alla zia, in una villa pesantemente profumata e lussureggiante che, come tutto in questo romanzo, è insieme accogliente e castrante, ambigua, duplice, il luogo della familiarità e della condivisione e continuità col passato e al tempo stesso la casa del silenzio e della lussuria, dei gemiti soffocati per abitudine, perché nessuno comunque potrebbe sentirli, il rifugio per le proprie bugie, i propri segreti, le proprie omissioni, la privacy difesa, ma neanche poi troppo: e le bambole inespressive di fronte alle cui teche darsi piacere, guardandone gli occhi fissi e le espressioni congelate in un immortale sorriso di plastica, si mescolano alla quotidianità brusca, malinconica e un po’ squallida di incontri pornografici raccontati con una prosa borbonica, barocca, decadente, che sa di nobiltà sfiorita come la schiatta alla quale appartiene il protagonista, un cinquantenne ginecologo (voluta ironia), e che non lascia nulla all’immaginazione.
Ci si rimorchia in chat, aprendo meccanicamente finestre su finestre sul proprio computer, cercando gente che non crei problemi – meglio, dunque, se sposati o fidanzati con donne – e la cui dotazione principale non si misuri in punti di quoziente intellettivo ma in un numero abbondante di centimetri, li si porta in casa e si consuma il rito: poi, si torna alla vita di tutti i giorni, quella in cui spesso si incontra anche chi è nato di un genere opposto rispetto al corpo che abita. Eduardo Savarese scrive un libro – Le inutili vergogne – breve e potente, denso e intenso, che parla di sesso e di morte, pascoliana citazione della digitale purpurea riveduta e corretta. Pagine in cui ognuno può trovare riflessa, al di là dei meri aspetti erotici (insiste un po’ troppo sul tema, a dire il vero) che sono solo un pretesto per allargare il discorso, qualcuna delle sue inquietudini.