Tormenti della carne
Autore: Antonio Gurrado
Testata: Il Foglio
Data: 4 giugno 2014
Nel romanzo di Savarese Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia, sembra la Marzano •
Mica le fa solo Melania Mazzucco: la scena di sesso orale fra uomini, qui condita di rossetto, si trova anche ne "Le inutili vergogne" di Eduardo Savarese (edizioni e/o) ma non è questo il motivo per cui il romanzo può scandalizzare o almeno mettere in crisi chi legge. Anzitutto perché la scena è scritta bene, come tutto il romanzo, quindi è destinata a restare di nicchia e a non destare curiosità né fra i professori di liceo antiomofobi né nelle interrogazioni parlamentari codine. In Savarese inoltre il pompino non è la soluzione bensì il problema; si accovaccia infatti un ginecologo dilaniato fra pulsione omosessuale e volontariato in un centro di assistenza sociale, sospeso come tutti noi fra il voler fare il male e il dover fare il bene. Il suo tormentato erotismo non ha niente di oltraggioso in quanto sembra una rappresentazione plastica delle parole di Lucia che squarciano la notte dell'Innominato: Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia. Non mette in crisi nemmeno il personaggio presunto scandaloso di Nunziatina, un transessuale sexissimo che nonostante la larghezza dei polsi inequivocabilmente maschili crede di essere incinta ogni volta che s'innamora; disorienta, piuttosto, la figura del prete che gestisce il centro di assistenza. E' una specie di giovane don Gallo neanche tanto velatamente accusato di "un certo spiritualismo confuso e profondista" da un vecchio monsignore saggiamente scettico; e che, alla fine, si becca l'inevitabile cotta per il dottore tentando con un arzigogolo di giustificarla passando da Dio, che è amore. Questa contraddizione sorprende perché altrove Savarese non teme a scrivere frasi vere che oggi non vanno per la maggiore. Racconta che la cifra della vita sacerdotale è una continua paura d'inadeguatezza al divino, protesta che non si può leggere il Vangelo con la vocina querula dell'abitudinario, assicura che guardare il mondo con gli occhi di Gesù lo rende meno complicato. Ricorda che ciò che esce dalla bocca è più grave di ciò che ne entra e che quindi un pompino è sempre più innocente di un dibattito sul pompino. Dichiara che non esiste amore omosessuale perché non può essere felice, che nonostante l'inglese i gay sono figure effettivamente tristi, e anche (per bocca del solito monsignore) che non si può giudicare nessuno poiché la grazia passa per canali misteriosi ma che ciò nondimeno la pretesa di vivere l'amore ognuno a suo modo è infantile e avvilente. Sarà pure un romanzo polifonico, in cui il lettore può decidere di andare d'accordo col personaggio che preferisce, però alla fine si vorrebbe trovare una parola definitiva nella postfazione di padre Paolo Gamberini gesuita. Questi però per tre pagine parla dell'humus dell'humanum, del realismo del vasaio e della gnosi spiritualistica che intride la chiesa evitando accuratamente di rispondere alla domanda: ma uno ha diritto di confondere fede e desiderio, di trasformare ciò che sente dentro in legge universale e divina? Padre Gamberini si astiene, Savarese fa trenta ma non fa trentuno e costella il romanzo di considerazioni su questo tenore: che amare Dio "sta nel vivere appieno la propria condizione", che "nessun soffocamento può derivare dalla volontà del Padre", che non bisogna reprimersi, che bisogna portare "la croce di essere come si è". Forse per timore di esporsi troppo, forse per voluttà di conformarsi alla mentalità di questo secolo, alla fine la goccia di misericordia del Manzoni viene diluita in un mare di pretese degne piuttosto di una Michela Marzano.