Ci sono libri di cui godiamo subito e racconti che a volte fluiscono tanto facilmente da non lasciare traccia nella nostra memoria. Altri invece non fanno vista di colpirci, li incontriamo quasi distratti... eppure accade qualcosa già leggendoli o appena chiusi: come certi vini ne avvertiamo un retrogusto sorprendente e capiamo che hanno lavorato sottotraccia, legandosi a noi indelebilmente. Il libro di Amara Lakhous appena uscito nella bella collana assolo di E/O appartiene a questo secondo genere di libri.
Lakhous è uno degli scrittori immigrati, quali Masri (qui recensito il 20 dicembre 2005), che scrive in italiano e che sta inaugurando quella tradizione che vantano paesi con più storia in questo ambito come Francia e Inghilterra. Lakhous ha una biografia travagliata e una formazione solidissima: laureato in filosofia nel paese d'origine, l'Algeria, e presto attivo come giornalista alla radio, è stato costretto ad abbandonare la patria nel periodo buio, quando il terrorismo integralista imperversava uccidendo anche intellettuali e artisti.
Venuto in Italia Lakhous ha lavorato come traduttore e mediatore culturale, ma contemporaneamente si è laureato in antropologia e attualmente lavora come giornalista. La grande serietà è testimoniata dalle sue scelte precise: ad esempio non ha sfruttato il trend che vede le case editrici sempre a caccia del nuovo talento immigrato da scoprire (il primo romanzo, Le cimici e il pirata, è uscito presso un piccolo editore cooperativo, Arlem di Roma). In secondo luogo non si è mai avventurato nella nuova lingua sfruttando editing compiacenti, ma ha studiato a fondo l'italiano fino a comprenderne alcuni dialetti. Ultima cosa, non meno importante, ha sempre inteso la professione in maniera rigorosa evitando la retorica della testimonianza, la denuncia politica e sociale dell'immigrato o il racconto esotico.
Probabilmente la formazione filosofica ha rafforzato la sua sensibilità per la lingua. Già
nelle Cimici e il pirata Lakhous aveva compiuto un'operazione molto coraggiosa nei confronti dell'arabo letterario: per raccontare la giornata qualunque dell'oscuro impiegato delle poste Hassinu, ossessionato dal sesso e dal senso di peccato, aveva fatto irrompere il registro orale basso nella casa aristocratica dell'arabo letterario. Non solo: aveva compiuto un'opera di laicizzazione del canone accostando, nella stessa pagina, la volgarità orale e la presenza sacra del nome di Dio, contaminazione blasfema che gli era valsa una condanna da parte degli ambienti religiosi.
Questa seconda prova nasce ancora una volta bilingue, ma secondo un percorso parallelo: prima scritta in arabo è stata pubblicata con successo in Algeria (e Lakhous ha potuto finalmente rientrare in un'Algeria più serena e riabbracciare la famiglia) e poi riscritta in italiano con un altro titolo più comprensibile al lettore italiano e occidentale.
La continuità poetica è apprezzabile soprattutto in tre elementi. Il primo è l'intonazione teatrale della sua prosa. Lo sviluppo del racconto, infatti, è affidato a una serie di monologhi e dialoghi, il che conferisce una forte presenza ai personaggi, dà loro una tridimensionalità e una fisicità che rende la pagina bidimensionale una sorta di limbo provvisorio in attesa della loro piena liberazione in scena non è un caso che Le cimici e il pirata sia stato messo in scena al Teatro Due di Roma nel 2001.
Un secondo elemento è rappresentato dall'ironia, già dichiarata nel titolo paradossale, tratto tipico e sorprendente in un autore che viene da una storia drammatica e narra una storia drammatica. Scontro di civiltà... ci porta infatti in un condominio della multiculturale piazza Vittorio a Roma: qui è stato ucciso il Gladiatore, un fascista razzista che tiranneggiava tutti con le sue prepotenze.
In una sequenza di interviste/deposizioni, che ricorda Rashomon di Kurosawa, ogni inquilino racconta la sua versione dei fatti ogni capitolo si intitola "La verità di..." e difende Amedeo, il mediatore dei conflitti culturali del palazzo (i condomini sono per lo più immigrati). La carrellata fa emergere tutti i solchi profondi che separano italiani del nord e del sud, immigrati di una parte o l'altra del mondo, italiani e immigrati, musulmani e cattolici... insomma un ognuno per sé e Dio contro tutti. Parimenti a Fa' la cosa giusta di Spike Lee la temperatura ambientale cresce esponenzialmente fino alla risoluzione del doppio giallo (chi è l'assassino? e dov'è finito il maggior sospettato Amedeo?)
però non sveliamo niente di questo libro gustoso, intelligente, tragico e comico insieme.
Balza agli occhi che il condominio l'ambientazione popolaresca è il terzo elemento di forte continuità nella poetica di Lakhous è lemblema di questa nostra società sempre più simile a una Torre di Babele dove ognuno parla la sua lingua incomprensibile, dove regna sovrano il fraintendimento e dove ciascuno è pronto a sfogare la sua esasperazione verso l'Altro, il vicino. La sequenza di monologhi potrebbe evocare una impressione di semplicità strutturale, ma le cose sono ben diverse.
Lakhous è un autore molto raffinato e si resta ammirati da come abbia saputo far levitare la trama con movimenti impercettibili e soprattutto dissimulare sotto la veste del fattaccio di sangue (chiaro l'omaggio a Gadda) un inesorabile ritratto delle sofferenze degli immigrati, del disagio dei nativi stanziali e delle questioni che comporta l'incontro/scontro fra le culture in una metropoli occidentale. La sapienza dell'autore tiene insieme tutte le voci, riesce a comprenderle evitando che una diventi giudice dell'altra, anzi facendo emergere l'umanità di tutti i caratteri, anche i più meschini e gretti, restituendo dignità a qualsiasi motivazione, svelandone le radici biografiche nascoste come ha felicemente parafrasato Ivano Gamelli "da vicino nessuno è straniero".
Le parti più toccanti sono gli intermezzi: tra le deposizioni infatti si inseriscono gli ululati, geniale invenzione che allude simultaneamente al verso imparato dalla madre adottiva (la lupa di Roma), ai lamenti notturni dell'animale solo (lo straniero), alla reazione ironica di fronte ai paradossi della vita, e agli zagharid, gli ululati di gioia (e di dolore) delle donne arabe. Qui il presunto assassino (l'Amedeo pre-giudicato dagli inquirenti) ha modo di riflettere su quel che accade, e a noi viene data la grande opportunità di potersi affacciare sulle fragilità dell'immigrato, sul suo sradicamento (così ignoto a chi risiede sicuro nella propria casa, nel proprio paese d'origine e nella propria lingua), sulle sue strazianti nostalgie affettive.
La domanda finale, quella che resta impressa in noi lettori come interrogazione ossessiva, è la domanda del mondo globalizzato: che cosa è cittadinanza? Un libro umile di grande respiro morale, che ci ritrae pietosamente nei nostri istinti più bassi e nella comunanza di una condizione planetaria ancora tutta da concepire.