Del nuovo libro di Alice Sebold (La quasi luna, Edizioni E/O, 2007), molto avvincente e di lucida radicalità, cercherò di raccontare solo quello che la stessa Helen Knightly, l’io narrante, dice fin dal primo rigo: “Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile”. Tutto il resto (lo sviluppo della storia, l’ambiente e i molti personaggi ben rifiniti, alcuni episodi che una volta letti non si dimenticano più) è diritto del lettore scoprirlo da solo, secondo la cadenza delle righe. Chi scrive un romanzo lavora apposta, con cocciutaggine, per fare in modo che la storia generi emozioni a catena e susciti sentimenti della stessa verità e potenza di quelli d’ogni giorno. Visto che Alice Sebold si è adoperata con perizia, perché guastarle il lavoro riassumendo la vicenda?
Muoverò invece da quella constatazione iniziale di stupefatta durezza. Dice sul serio Helen? Una figlia può ammazzare la propria madre senza troppe remore? Bisogna leggere il romanzo fino in fondo per cercare una risposta.
Mentre il racconto del parricidio ha una lunga e complessa tradizione maschile, quello del matricidio è molto meno radicato nell’immaginario e quindi meno prevedibile. Rarissimo poi è il racconto alto, fondativo, di una figlia che uccide la madre. Abbiamo Elettra, naturalmente, ma il mito e i tragici, pur lasciandoci momenti e formule su cui non si finisce mai di riflettere, fanno combaciare le sue ragioni con quelle maschili del fratello Oreste: assassinare la madre su mandato della stirpe, per vendicare il padre.
Bisogna arrivare ai giorni nostri per trovare qualche storia (poche) di figlie che, riesaminando con dolore il rapporto con la madre, o progettano di ucciderla o la uccidono realmente muovendo dalla sostanza imparagonabile di quel rapporto, quasi che cominciassimo a sentire solo ora di avere anche noi il diritto di rappresentare il nostro fondo più paludoso.
Perché il romanzo ha frequentato poco le zone più oscure della relazione figlia-madre, mettendo lo zucchero dell’amore sull’ odio e sulla spinta omicida? Si tratta di una pulsione femminile di scarsissima diffusione? Esiste ma è nota solo alle donne, sicché è un territorio dove la tradizione maschile alta non ha potuto mettere il suo stendardo? L’inibizione culturale è troppo potente per mettere in scena il crimine dei crimini?
Non mi pare. La psicoanalisi, nel corso del Novecento, ha lavorato molto sul ruolo dell’imago materna nelle nostre vite e ha raccontato, sicuramente più della letteratura, quell’accanimento femminile nei confronti del corpo della madre che Freud, nel "Caso di Dora", definisce ‘furioso’. Le righe di Freud sono certo disorientate, incerte, a tratti strabiliate (mi riferisco anche a Sessualità femminile, del 1931), ma hanno il grande merito di sfiorare aree senza nome: l’odio della madre verso la figlia, della figlia verso la madre. Melanie Klein se ne renderà conto e ci lavorerà duramente mettendo al centro il matricidio. Grazie a lei oggi il corpo materno è all’origine dei buoni e soprattutto dei cattivi sentimenti dell’animale umano.
Perché allora Elettra ha tardato tanto a raccontare le sue ragioni più nere nei confronti di Clitennestra? Faccio l’ipotesi che la narrazione dell’assassinio della madre per mano di figlia sveli a noi stesse un impasto così denso di veleni diversi, da risultare difficilmente ordinabile sulla pagina. Racconti una cosa e altre scappano via. Alla fine la sostanza non c’è e per di più ti senti sporca.
L’impresa di Sebold ha il merito di prendere di petto questa difficoltà. Usa un tono da confessione ironica, senza lacrime. Frammenta il filo del matricidio e delle sue conseguenze con brevissimi lampi che offrono la storia del suo rapporto con la madre fin dall’infanzia. Accantona la via più ovvia, quella degli eccessi ribelli in fase adolescenziale, e assegna il crimine a una donna matura, madre lei stessa, che compie il suo gesto in assoluta consapevolezza. Non spinge mai il racconto fuori dalla scansione realistica della vicenda o in direzione del simbolismo psicoanalitico. Tuttavia specialmente le microazioni della vicenda suggeriscono aree segrete.
Helen, uccidendo la madre, la trasforma in bambola-figlia e la pulisce dalla defecazione, la lava, la veste come in un gioco di bambina che si finge madre di neonata. Helen si sente addosso il peso del cadavere della donna che le ha dato la vita e le viene in mente il peso del corpo di un amante che si abbandona stremato dopo il coito. Helen registra continui dettagli erotici del corpo materno, quasi fa la storia dell’attrazione che quel corpo ha esercitato su di lei, dalla prima infanzia al giorno dell’assassinio.
Helen detesta la madre, la invidia e la odia, la ritiene da sempre marcia e come Elettra le assegna la colpa di aver distrutto suo padre. Helen si è presa cura di lei fin dall’infanzia, ha tentato di proteggerla innanzitutto dal suo essere cattiva madre, madre demente e quindi incapace di travestire la sua ostilità con i riti dell’apparente buona madre. Senza semplificare, ma con naturalezza, Sebold tiene insieme le emozioni più diverse. Mentre leggevo La quasi luna pensavo: no, questo libro non è solo la storia di un matricidio, ma è anche la storia dell’amore, furioso appunto, di una figlia per la madre.
Ma cos’è, in sostanza, l’amore di una figlia per la madre? Raccontarlo sul serio, quell’amore, è per una figlia un’impresa veramente complicata. Nella nostra letteratura il meglio l’ha dato Elsa Morante, ma c’è ancora molto da fare. Sgombrato il campo da ogni idealizzazione, ci si accorge presto che la stessa parola amore, che sa dire tanti tipi di amore a seconda del contesto, applicata al corpo materno non dice niente. Va benissimo per i sillabari, per i libri edificanti, per quelli consolatori. Ma se si decide di fare sul serio bisogna scegliere aggettivi, nuove formule (come l’Elettra di Euripide quando, prossima ad assassinare la madre, torce le parole giungendo a definirla l’amata non amata) e anche così non si è contente. Occorre avere coraggio e inventare congegni verbali che suonano sicuramente sgradevoli, se la sgradevolezza in letteratura è cancellare la bella pagina per fedeltà all’esperienza viva, alla sua verità. Il racconto del matricidio è raro perché, al modo di Pascal, porta il sapere su noi stesse fino al disgusto e obbliga di per sé al deragliamento dalla gradevolezza dei modelli che da sempre ci rassicurano.
Sebold deraglia, ma, attenzione, non quando Helen fa cose terribili, piuttosto quando ci fa percepire che il suo amore per la madre, anche la sua pietà, non possono manifestarsi se non nella forma dell’odio, in un attaccamento che schiavizza, in una dipendenza ansiosa che guasta nel profondo e che pare possa essere cancellata solo annientando in noi, per invidia, per odio, il suo fantasma sfuggente. Solo nei passaggi in cui ho sentito sgradevolezza – la scoperta che il freudiano accanimento furioso delle figlie è un movimento animale non addomesticabile, – mi è sembrato anche che ci fosse la risposta alla domanda iniziale: fa sul serio Helen, quando dice che ammazzare la madre le è venuto facile?
Sì, credo di sì. È l’intollerabile potenza distruttiva di quel legame che rende facile il gesto della matricida. Tagliare via la madre viene più facile, insomma, che accogliere quel legame e capirlo e metterne a frutto l’incubo. Quest’ultimo è un racconto difficilissimo da fare. Sebold ci aiuta a pensarlo.