Tutti i mondi sono possibili
Autore: Fabio Pedone
Testata: Il Manifesto
Data: 18 maggio 2013
Sarà perché «oggi l'apocalisse va di moda», come ha dichiarato una volta, ma certo non solo per questo Jérôme Ferrari ha vinto il premio Goncourt 2012 con il suo ultimo romanzo. Insegnante di filosofia nei licei e poi consulente pedagogico, lo scrittore quarantacinquenne sta conquistando uno spazio di primo piano nel panorama letterario europeo, e dopo aver lavorato nella sua Corsica vive adesso nella rovente Abu Dhabi: davvero un altro mondo, ripete scherzando, rispetto al rigurgito invernale che ha investito con una pioggia tenace la prima giornata del Salone del Libro di Torino. Da Balco Atlantico a Un dieu un animal a Où j'ai laissé mon âme (edito l'anno scorso da Fazi), Ferrari ha saputo precipitare in forma narrativa questioni profonde, affrontando il problema del fascino della violenza e creando personaggi bloccati fra l'aspirazione alla libertà e il gioco crudele di poteri superiori, il bisogno di poter vivere per qualcosa di più grande di loro e la vocazione inarrestabile al fallimento. Come Matthieu, protagonista del romanzo premiato con il Goncourt, che vede disfarsi la vita ideale che si era creato aprendo un piccolo bar in Corsica. L'incontro con lo scrittore del Sermone sulla caduta di Roma avviene proprio al Salone, poco prima della presentazione del romanzo, pubblicato dall'editore e/o.
Il «Sermone sulla caduta di Roma» si regge sull'immagine, mutuata dalla filosofia, di mondi che crollano, nella storia umana e nell'esistenza individuale. Cosa vuol dire integrare la filosofia in un romanzo, e come si inserisce in un'opera narrativa senza renderla rigida e didascalica?
Di solito, quando mi si chiede delle riflessioni filosofiche in un mio libro, tendo a rispondere che non ce ne sono; ma questo non è esatto. Giustamente in un libro non voglio dare l'impressione di una strutturazione astratta, teorica o didascalica, che poi viene invece incarnata dai personaggi e dalle vicende. Penso che il ruolo di qualunque romanzo non debba essere didattico e nemmeno che debba consistere nel rendere concreta una nozione astratta. Invece, sono convinto che un tema lo si possa trattare in maniera o del tutto filosofica o del tutto letteraria. Il «mondo» rappresenta un po' questo. Ad esempio Leibniz, che è il filosofo più astratto e teorico di tutti, usa concetti che mi pare abbiano in modo evidente corrispondenze romanzesche molto concrete. Il concetto di mondi possibili mi sembra calzi assai bene con la definizione del romanzo: lo stesso Leibniz qualificava il romanzo come «mondo possibile».
Leggendo invece «Dove ho lasciato l'anima», l'altro suo romanzo tradotto in italiano, nell'incalzare drammatico della voce del protagonista e nello sviluppo spietato di dilemmi morali sullo sfondo dell'Algeria si pensa subito a Dostoevskij e Camus, scrittori su cui lei si è formato. Cosa deve il romanzo a questi autori?
Dostoevskij è un riferimento, senza dubbio, per l'uso di temi metafisici in un romanzo effettivamente romanzesco a pieno titolo. Anche Camus è evidente in Dove ho lasciato l'anima; ha avuto un grande influsso su di me mentre lo scrivevo, pure se all'epoca non ne ero per nulla consapevole. Penso in particolare alle riflessoni morali di Les Justes che mi hanno segnato parecchio. È sicuramente presente quando si parla di complessità di problemimorali e di rifiuto del manicheismo. C'è anche un autore italiano, un siciliano, Giosuè Calaciura; non posso non citarlo, il suo Malacarne è stato una scoperta dirompente: è il discorso diretto di un mafioso a un giudice, un romanzo metafisico sulla mafia che per me è stato un vero choc stilistico.
Nato a Parigi, lei ha vissuto e lavorato in luoghi periferici, decentrati rispetto alla Francia: l'Algeria, la Corsica. Cosa significa guardare il mondo e scrivere «da lontano»? Cosa si vede che non si vedrebbe altrimenti?
Sono cresciuto in periferia a Parigi fino ai vent'anni, e ho passato tutte le vacanze scolastiche nel paese dei miei in Corsica, Fozzano, senza alcuna eccezione. Odiavo quel tipo di vita perché avrei voluto stare sempre in Corsica, ma a distanza di tempo ho scoperto che questa sorta di «bilocazione » mi ha dato una prospettiva diversa; in effetti, ho avuto accesso a dei mondi molto diversi tra loro. Questo ha aiutato a determinare lo sguardo che ho cominciato a proiettare sulle cose, ed è sempre importante avere la possibilità di uno sguardo alternativo. Perciò amo molto le periferie. Sono sicuro che la Corsica più periferica abbia esercitato su di me influenze forti, è stata fondamentale per il mio modo di vedere il narrare e la scrittura. L'esperienza mi è servita molto anche per i viaggi all'estero, che ho cominciato dopo i 25 anni, e per adattarmi ad altre realtà. Tra la banlieue parigina e la Corsica c'è una distanza culturale non indifferente, e ha richiesto da parte mia un adattamento che oso definire acrobatico, proprio il tipo di adattamento culturale che mi è servito poi per i viaggi all'estero. Trovo che queste esperienze siano fondamentali per scrivere romanzi: si impara a porsi in una prospettiva diversa, da un punto di vista straniero, estraneo. Un mondo è anche una lingua. Nel «Sermone», Matthieu ascolta dai suoi parenti «quella lingua che non conosceva ma che sapeva essere la sua».
Lei ha scritto in francese dentro un mondo, quello corso, che parla anche un'altra lingua, portatrice peraltro di valori politici. E ha tradotto in francese diverse opere di un importante scrittore in lingua corsa, Marcu Biancarelli. Vive questa condizione in maniera conflittuale?
No, tutt'altro, la prospettiva conflittuale era una mia visione da adolescente che poi si è evoluta; ora quel che vediamo rispetto al tema della Corsica e della lingua è piuttosto una grande ricchezza. Marcu Biancarelli e io abbiamo cominciato a scrivere insieme, e persino nello stesso posto. Si arriva alla letteratura solo lasciando da parte i conflitti politici, perché sono proprio quei conflitti che finiscono per impedire l'espressone letteraria; con questo non intendo dire che un testo letterario non possa essere politico, ma che non possa permettersi di essere di parte. All'inizio del 2000, quando abbiamo cominciato questa avventura, le cose erano ancora molto complicate, più di adesso: cominciavamo a scrivere di una Corsica che non era necessariamente quella sotto i riflettori, e che creava problemi ai francesi, non corrispondendo alla concezione che i continentali avevano dell'isola; dava fra l'altro un'idea molto provinciale, l'idea di essere ai margini della francesità. Mentre in Corsica non ci amavano perché proiettavamo un'immagine a loro avviso negativa della realtà corsa. Insomma, non ci amava nessuno. La letteratura romantica francese dell'Ottocento ci ha avvelenato la vita per anni, e da parte nostra c'è stato il rifiuto di un cliché. Basti pensare a Mérimée: il paese di Colomba era proprio il mio. C'era anche del vero in quelle storie di vendetta sanguinosa, ma Mérimée ha trasformato questa violenza selvaggia usando la retorica della grandezza d'animo! Di questo cliché romantico i corsi si sono riappropriati come in un gioco di specchi. Quando Biancarelli invece ha cominciato a scrivere romanzi su dei ragazzi che vanno nei locali notturni pieni di prostitute… c'era qualche discordanza rispetto all'immagine che si era creata fino ad allora, no.
La guerra è uno sfondo importante nei suoi libri. Sempre più scrittori stanno affrontando il tema della violenza e delle guerre della Francia, dall'Indocina all'Algeria, e penso a Laurent Mauvignier o ad Alexis Jenni. Come valuta questo nuovo interesse narrativo?
Quando stavo scrivendo Dove ho lasciato l'anima, non c'eranomolti romanzi sulla guerra d'Algeria. Poi proprio in quel momento, nel 2009, sono usciti altri libri: Mauvignier ha scritto Des hommes, e Alexis Jenni stava già lavorando all'Art français de la guerre. Sono state coincidenze strane,mi hanno fatto pensare, e mi sono detto che in fondo un autore non ha un potere assoluto di decisione creativa ma intercetta forse qualcosa che è nell'aria, che vibra nella temperie dell'epoca, e che si esprime poi attraverso uomini diversi, perché ormai è giunto il momento, forse per ragioni sociali, forse per altre motivazioni. C'è una complementarietà tra l'individuo e la sua epoca. È come se ognuno tramite sue motivazioni personali arrivasse a una determinata conclusione, per quanto riguarda quel che intendeva esprimere, conclusione che poi si rivela comune anche ad altri. Senza dubbio fra questi il più grande romanzo francese sulla guerra è Zona di Mathias Enard. Siamo più omeno della stessa generazione, ci fermiamo su tematiche comuni anche se partiamo da motivazioni personali che non sono necessariamente le stesse. Tanto abbiamo sentito dire che la letteratura francese era autoreferenziale che il risultato è stato questo. Il «Sermone sulla caduta di Roma » si apre e si chiude con la parola «testimonianza».
Che testimonianza può dare uno scrittore e qual è il suo compito, se c'è, in un tempo di crisi come il nostro?
In realtà non faccio molto riferimento all'attualità, anche se inconsciamente essa rientra com'è ovvio nei miei scritti. Il Sermone rappresenta un mondo in crisi ma non è stato questo il pensiero all'origine del libro, non pensavo per forza alla crisi ma a delle cose che trascendono il nostro mondo; il successo del mio libro è probabilmente un sintomo di quanto stiamo vivendo oggi. Parlando di testimonianza, potrei anche dire che per natura sono molto sensibile alle tracce. La fotografia che evoco all'inizio, ad esempio, quella «fotografia dell'assenza » da cui ho cominciato il libro, è molto simile a una che ho a casa, con il volto impaurito di mia nonna bambina; è la testimonianza dell'inizio e la testimonianza della fine, come scrivo nel romanzo. Sono sensibile a questo genere di reperti e tracce di un mondo scomparso, anche se non so se poi il ruolo dello scrittore stia esattamente nel perpetuare un mondo che è scomparso. Anche i libri, in fondo, sono destinati a scomparire.
Nel finale del romanzo, c'è l'immagine molto bella e ambigua di una ragazza che sorride fra le lacrime mentre Agostino d'Ippona tiene il suo sermone sul mutamento costante a cui è sottoposta ogni vicenda umana. Non si saprebbe inquadrare quell'immagine in un modo preciso. Lei, scrivendo, cerca l'ambiguità?
Penso che l'aspetto più comune in tutto quel che ho scritto è la preoccupazione mistica: l'intuizione che le cose portano in sé delle contraddizioni e che queste sono insolubili. Non è un'ambiguità da risolvere scegliendo per l'uno o per l'altro senso, non è questione di scelta, quanto del fatto che i due estremi della contraddizione devono coesistere. Per esempio, parlando del bar che apre Matthieu nel romanzo, ci sono delle ragioni per cui le cose vanno benissimo e ragioni per cui a un certo punto vanno molto male; quelle ragioni sono esattamente le stesse. All'origine dell'immagine di questo viso che è lacrime e sorriso insieme (ed è qualcosa che ho fatto ancora meglio in Un dieu un animal) non c'è la volontà di dare ambiguità, ma di esprimere i due poli costitutivi della vita.