La caduta di Roma e il Goncourt
Autore: Michele Turazzi
Testata: Le parole e le cose
Data: 24 marzo 2013
Il romanzo che ha vinto l’ultima edizione del prix Goncourt ha un titolo degno di un testo storico: Le sermon sur la chûte de Rome (Sermone sulla caduta di Roma). Nulla di più fuorviante. Non c’è spazio (o quasi) per gladiatori, invasioni barbariche e schieramenti oplitici nel romanzo di Jérôme Ferrari. «La chûte de Rome» rimanda a una famosa orazione di Sant’Agostino, quella in cui viene affermato: «Il mondo è come un uomo, nasce, cresce e muore». È allora in questa identità che va ricercato il primo tema del libro.
Le sermon sur la chûte de Rome è il settimo romanzo di Jérôme Ferrari, insegnante di filosofia di quarantaquattro anni. Ed è proprio con questo testo che Ferrari fa il suo esordio in Italia: quattro mesi dopo l’assegnazione del Goncourt, Le sermon compare ora anche in italiano, grazie all’interesse delle Edizioni EO. La casa editrice romana peraltro non si limiterà a questa pubblicazione, ma andrà a ritroso nel tempo, dando alle stampe nel corso del 2013 Balco Atlantico, il libro che ha fatto conoscere al grande pubblico francese il nome del nostro autore e, successivamente, Un dieu un animal (uscita prevista: 2014).
L’intreccio di Le sermon sur la chûte de Rome si sviluppa per la gran parte in un villaggio dell’entroterra corso. È là che due giovani (Mathieu e Libero) decidono di rilevare un bar, dopo aver abbandonato gli studi di filosofia a Parigi. Desiderano seguire la massima di Leibniz e creare in quel luogo «il migliore dei mondi possibili», un microcosmo chiuso di cui i due si autoeleggono demiurghi e custodi: è attorno al bar infatti che si raduna un nutrito gruppo di personaggi (dalle cameriere che i giovani reclutano nei campeggi-vacanza dei dintorni ad un musicista dall’aria sfrontata che suonerà regolarmente sul palco del locale, senza dimenticare i vari avventori abituali, uomini rozzi che mai hanno abbandonato quel paese non bagnato dal mare). Ma è una costruzione dalle fondamenta traballanti, un mondo inebriante destinato a finire in tragedia. E l’autore non evita mai di inserire nel testo spie e richiami ai rivolgimenti drammatici che, prima o poi, devasteranno l’equilibrio così difficoltosamente conquistato dai «leibniziani». Un’atmosfera da «fine del mondo» che, senza mai essere pesante, riesce ugualmente a velare di una luce melancolica anche i momenti più spensierati del testo, quelli in cui il narratore si lascia più andare al divertimento narrativo. E quando, verso metà libro, Libero decide di procurarsi una pistola, al lettore non rimane che prendere atto del climax che condurrà al tragico epilogo.
Accanto alla linea narrativa principale si sviluppano altre due esistenze-mondo, quella di Marcel, il nonno di Mathieu, e quella di Aurélie, la sorella maggiore. Le vicissitudini del vecchio sono un lungo filo rosso che si snoda lungo la storia collettiva, quella che attraversa la Seconda guerra mondiale, le avventure coloniali e la conseguente dissoluzione dell’impero francese e si conclude, riversa su se stessa, nello stesso punto da cui è partita: là nel piccolo villaggio dove Marcel resta sveglio tutta la notte, lo sguardo fisso al muro, roso dai rimorsi di una vita sprecata. Aurélie, invece, rappresenta il libero arbitrio; una donna moderna che sa quel che vuole e cerca di ottenerlo a tutti i costi. Archeologa, la giovane si installa in Algeria a seguito di una spedizione alla ricerca delle rovine di Ippona. Brilla per contrasto con il fratello Mathieu: dove lui «croit toujours qu’il suffit détourner le regard pour renvoyer au néant des pans entiers de sa propre vie», Aurélie affronta ogni avversità di petto, prendendosi le responsabilità di ogni azione (è lei che lascia il proprio compagno per andare nelle braccia di un giovane arabo, è sempre lei a lasciare senza una parola anche l’altro prima di tornare in Francia).
Queste tre esistenze, ontologicamente lontane all’apparenza, sono in realtà accumunate dall’ombra del fallimento. Mathieu, Aurélie e Marcel: nessuno dei tre è riuscito ad avere la meglio sulla realtà esterna, su quell’entità alogica che governa ogni cosa senza raggiungere nessuno scopo. Il semplice scorrere del tempo ha sgretolato le velleità di emancipazione di Marcel, che vedeva nelle colonie africane la propria possibilità di riscatto, oltre che la promessa di una vita d’azione e avventura, e che invece è stato costretto a rimpatriare sconfitto; le difficoltà di vivere una relazione fondata sulla disparità in un paese straniero hanno invece ben presto avuto la meglio sul nascente amore di Aurélie; mentre il «migliore dei mondi possibili» è rovinosamente franato sotto i piedi di Mathieu, senza che lui non solo potesse organizzare una minima resistenza, ma neppure riuscisse a rendersene conto del tutto.
Ma i fallimenti dei singoli altro non sono che pallidi riflessi delle sconfitte dell’umanità in generale, o almeno di quelle della nostra civiltà europea. In Le sermon sur la chûte de Rome ampio spazio è dato alla dissoluzione repentina degli imperi coloniali nel secondo Novecento, ossia alla fine empirica di ogni velleità egemonica del nostro continente. Ma non solo: c’è – fin dal titolo – il crollo della Roma antica, simbolo imperiale di tutto ciò che fu erroneamente considerato immutabile e che, invece, da un giorno all’altro, è diventato debole e caduco, «la voile carée d’un navire qui entre dans le port d’Hippone, portant avec lui, depuis l’Italie, la nouvelle inconcevable que Rome est tombée». E se pure a Sant’Agostino – tratteggiato in alcune pagine di rara delicatezza mentre assiste impotente alla devastazione di Ippona da parte dei Vandali – sorgono dei dubbi sulla fondatezza della propria fede, a quell’Agostino che aveva detto ai fedeli «Rome est tombée. Elle a été prise mais la terre et le cieux n’en sont pas ébranlés. Regardez autour de vous, vous qui m’êtes chers. Rome est tombée mais n’est-ce pas, en vérité, comme s’il ne s’était rien passé», allora probabilmente non c’è davvero nessuna salvezza per l’uomo. Non c’è alcuna consolazione, al di là della consapevolezza che la fine e l’inizio, altro non sono che due facce della stessa, umana, testimonianza.
Forse Ferrari è riuscito davvero a parlarci di quell’identità che esiste tra vicende dell’uomo e vicende della storia, tra microcosmo e macrocosmo, perché la Corsica narrata è sì un luogo geografico ben definito, ma può ben rappresentare anche tutt’altro. E lo fa utilizzando uno stile mai banale che riesce a padroneggiare allo stesso modo frasi lunghe intere pagine, pregne di concetti filosofici, come dialogati sferzanti che vogliono ricalcare l’argot, senza perdere una leggerezza di fondo che, a differenza di molti altri «giovani» scrittori, non è data da un linguaggio sarcastico e allusivo, ma semplicemente dalla consapevolezza stilistica.
Certo, non è tutto perfetto in Le sermon sur la chûte de Rome (su tutto, un intreccio che a volte appare un po’ debole, con un numero di personaggi forse eccessivo), ma per una volta è meglio lasciare da parte alcuni difetti, per rallegrarsi del fatto che le librerie italiane possono ora irrobustire il proprio catalogo con il nome di un autore che ha ancora il coraggio di dar vita ad un mondo rigorosamente plasmato, denso, senza accontentarsi di raccontare una storia. Quella di Ferrari è una ricerca stilistica sempre a servizio di un’idea, mai fine a se stessa, e oggi non sono molti quegli scrittori che riescono a far convivere con equilibrio narrativa e costruzione filosofica. Se poi, quell’idea riesce a dar voce allo spirito del nostro tempo, allora sì, possiamo dire che Ferrari colpisce nel segno. E che i premi letterari riescono ancora a promuovere autori degni di questo nome.