Creature un po' strane, ma non troppo. Creature che interpretano una normalità sfuggente e che si caricano di una loro esemplarità un po' sghemba. Ma solida. Ma persuasiva. Come Tiziano Rossi detto Tizio nel romanzo La discarica. Come il magistrato Pietro Carbonara nel romanzo La badante, entrato in finale al premio Strega. E ora questa vedova, Tilde Manentini in Gavelli, nel romanzo Il mio manicomio, che Paolo Teobaldi ha appena pubblicato - come i due precedenti - da e/o.
Il manicomio di Tilde non è «suo» perché ci stia ricoverata, ma «suo» perché ci ha vissuto un'intera vita come infermiera. E' lei a raccontare con la sua vita la vita del manicomio prima che la cosiddetta legge Basaglia (che Tilde deforma in Pazzaglia) ne decretasse la fine.
Il fondale è quello pesarese, la città sempre riconoscibile e mai del tutto esplicita dei romanzi di Teobaldi, che da lì - un po' come Gianni D'Elia - parte per ogni sua umana e poetica ricognizione. La città dei due pentagoni: quello grande delle mura
costruite dai Della Rovere, e quello piccolo, che ospitava appunto il manicomio.
Un doppio microcosmo che conferisce verità al tutto in un dissimulato gioco di rispecchiamenti. Ma anche un legame con consuetudini e abitudini e linguaggi in cui s'impasta una narrazione fatta di accelerazioni e décalage. La stessa linea spezzata,
con cui il romanzo si chiude, arieggia le sbiecature sterniane del Tristram Shandy senza per altro impedire alla storia
di fluire - o meglio ancora di disporsi - in una sua pur saltabeccante continuità.
La voce di Tilde si nutre di dialetto, è impastata di oralità, è intinta in un italiano pieno di soprassalti locali. Lei dice «sciaganito» e «rinsegoliva». Lei dice «sbighi» e «sbregare» (tanto che alla fine l'autore ha pensato bene di accompagnare il suo romanzo con un glossarietto intitolato «La lingua di Tilde»). E il suo dire stesso trova negli impasti idiomatici il ruvido andare dei suoi respiri, che sono - in definitiva - i suoi respiri narrativi.
Non è un caso che lei dica sempre di sé che non sa raccontare («è fatica peggio che dare lo straccio»). Né è un caso che dica di non saper raccontare alla figlia Floriana.
Tilde è una donna che viene dal basso, una donna che ha fatto una vita grama, un padre mai visto, condannato all'ergastolo e morto all'isola di Capraia, una madre di cui le resta attaccata una specie di vergogna, un'esistenza stretta e molti lavori alle spalle
prima di diventare infermiera «per il manicomio».
La vita del manicomio passa attraverso i ricordi di Tilde che si sente difettiva e piena di inadeguatezze, ma che parla dei suoi quarant'anni di lavoro - tra dramma e commedia - con concreta pietà. I medici, le suore «cappellone», le altre infermiere, la guerra, i tedeschi, lo sfollamento, i matti, i lavori dei «Tranquilli» e delle «Tranquille», la cucina, la biblioteca, la sua vita privata, il marito
Delfo, che imbocca un mestiere redditizio, la figlia Floriana, con cui ha difficoltà di comunicazione, tutto un pezzo di storia
d'Italia visto da una specola doppiamente marginale.
A vincere non è - beninteso - l'aneddotica di un'istituzione totale né il localismo di un mondo piccino, ma la saggezza che spira dalle parole di Tilde, la consapevolezza retrospettiva di un'esistenza vissuta con dignità, la scoperta di un passo sretoricato che dà senso ad un segreto destino di cui è la vita - nella sua unicità - a dettare la musica e il ritmo.