Utu
Autore: Marilia Piccone
Testata: Wuz.it
Data: 27 luglio 2012
È “bello, ardente, fosco, sensuale e pericoloso”. Beve. Sniffa cocaina. È violento e non ha scrupoli nell’usare metodi affatto ortodossi per ottenere quello che vuole. Si chiama Paul Osborne, è un tenente della polizia neozelandese ed è il protagonista di questo intrigante noir dello scrittore francese Caryl Férey intitolato Utu, che significa ‘vendetta’ in lingua maori. Vendetta da parte di chi? Di un singolo o di un intero popolo umiliato, spoliato, soggiogato dai pakeha bianchi dal momento del loro arrivo in Nuova Zelanda? Se i colonizzatori si sono sempre ritenuti superiori agli autoctoni, se hanno guardato con orrore e sprezzante disgusto le pratiche cannibalistiche e i culti religiosi dei maori, se hanno impiegato l’inganno e la violenza per estorcere loro le terre su cui vivevano, la sorte che li aspetta è di buon diritto una specie di durissima pena di contrappasso dantesca. La vendetta sarà spietata e il romanzo di Férey è propriamente un noir, un libro che non offre soluzioni risolutive finali e neppure stabilisce una quiete pur provvisoria. Anzi.
Utu inizia dove terminava il precedente romanzo di Férey, Haka, ma l’autore avvisa che non è necessario aver letto il primo libro per leggere il secondo. Il capo della polizia di Auckland, Jack Fitzgerald, si è suicidato al termine dell’indagine al centro della trama di Haka: il serial killer da lui ricercato era stato ucciso, i cadaveri delle donne e quello di un uomo erano stati trovati in una fossa comune, uno sciamano maori (presunto complice dell’assassino) era scomparso. Paul Osborne, amico di Fitzgerald, viene richiamato per aiutare nelle indagini in quanto esperto nella questione maori. Sono molti i punti inquietanti: perché mai Fitzgerald avrebbe dovuto suicidarsi? Perché alle vittime è stato asportato il femore? E, soprattutto, che fine ha fatto lo sciamano che era anche un attivista maori? L’incubo, però, non è finito. Il cadavere di una donna viene ritrovato su una spiaggia: la metà inferiore del suo corpo è stata inghiottita dagli squali. È solo il primo di una serie di altre morti che seguiranno, tutte molto cruente. In più - sembra un furto banale ma non lo è affatto - dalla casa di un uomo influente che scrive libri reazionari è stata rubata un’antica ascia maori di guerra.
Utu ci trasporta in una cultura e in un mondo che non ci sono familiari e ci incuriosiscono. Sotto la forma del romanzo di genere veniamo ad apprendere la storia della colonizzazione e dello sfruttamento della Nuova Zelanda, del trattato di Waitangi del 1840 con cui i britannici si impossessarono delle terre maori, dell’apparente pentimento e restituzione fatti in tempi recenti, della politica di repressione adottata nei confronti della criminalità che si vuole fare apparire come appannaggio esclusivo degli indigeni, della società dorata di Auckland che sotto l’integerrima apparenza nasconde ogni tipo di vizio a cui la polizia offre copertura ufficiosa. Per controparte impariamo a rispettare la dignità maori, il loro senso di appartenenza alla terra con cui si identificano, la frustrazione per il sistematico schiacciamento e la violazione dei loro diritti. Impariamo anche il significato dei loro culti, dei raffinati tatuaggi sui volti che nascondono quasi un messaggio cifrato, delle teste mozzate e tatuate che diventano sacre.
E Paul Osborne, questo personaggio che non riesce mai a conquistare le nostre simpatie, è il tratto d’unione fra il mondo bianco e quello maori: nei capitoli in corsivo leggiamo della sua vita e dell’amore per la ragazzina meticcia che, diventata adulta, decide di ritornare alla famiglia maori che suo padre aveva deciso, invece, di ripudiare. Un amore non realizzato che lo spinge a cercare di capire quanto sta succedendo e a condividere, infine, il destino di lei.
Utu è un romanzo pieno di violenza. Non potrebbe essere diversamente, raccontando di una vendetta perseguita da uomini etichettati come violenti per natura. Ma anche Paul Osborne, anche i pakeha che vogliono far saltare in aria antichi insediamenti maori sono violenti. In nome di che cosa questi dovrebbero essere giustificati piuttosto che quelli?
A tratti granguignolesco e grondante sangue, questo pulp di Férey si chiude con l’immagine di un ragazzino down i cui tratti sono enigmatici al pari di un moko maori.