Romanzo certamente ambizioso, quest'ultimo di Paolo Teobaldi, il quale dalla sua specola pesarese prova ora, dopo il successo de La badante , a ricostruire sessant'anni di storia italiana attraveso le vicende e i ricordi di Tilde, messi in scena dall'incessante monologo della protagonista.
Poverissima, padre morto in galera, madre erbivendola senza banco al mercato, incanutita a diciotto anni per il trauma di un incidente sul lavoro, Tilde arriva infine a fare l'infermiera nel manicomio di Urbino, dove rimane per quarant'anni, dividendosi fra i carichi non indifferenti del suo ufficio e le cure del marito e della figlia. La "normale" esistenza, insomma, di una donna povera e incolta, che però non rinuncia a dire la sua sul mondo e su quanto accade in Italia, ostentando anche un certo orgoglio delle sue opinioni e delle certezze faticosamnte raggiunte. Ed è proprio in questo dire sgrammaticato, infarcito di termini dialettali, elementare e insieme potentemente espressivo, che il personaggio schiude la sua natura più profonda: non figurina sentimentale per confezionare un affresco storico di provincia, ma essere umano a tutti gli effetti, con la sua complessità e le sue contraddizioni, che con la piccola storia della sua enclave si misura costantemente, fino in qualche modo a riassumerla in sé.
Il mio manicomio è in definitiva lo scavo ininterotto in una psiche che si effettua esclusivamente per via linguistica, in cui la parola, sia pur dimidiata, incerta, quasi traballante, diviene un mondo precario e imperfetto, ma comunque ben più ricco di significati e di storia di quel mondo reale ridotto a opaco e sordo fondale. Teobaldi quella parola ha saputo costruirla e padroneggiarla con mano ferma, senza sbavature intellettualistiche e senza mai cedere, per sua fortuna, al gusto della macchietta.