Dai tanti angoli della provincia arrivano ancora storie esemplari, racconti di unItalia che si è più volte smarrita e altrettante volte ritrovata tra povertà, monarchia, fascismo, guerra, mezzadria, fabbrica, comunismo, democrazia cristiana, emigrazione, benessere. Nuove e vecchie paure, opportunismi misti a sinceri slanci ideali occupano il racconto di quella vicenda novecentesca che è il farsi moderno delle diverse regioni del nostro paese. A presidiare una di queste piccole aree è il sessantenne pesarese Paolo Teobaldi. Come già in altri suoi precedenti libri, Teobaldi ci racconta una porzione della sua terra, la parte delle Marche settentrionali stretta tra la Romagna e la Toscana.
Dopo il presente del precedente La badante, è al secolo passato che Teobaldi si dedica ora con Il mio manicomio, racconto in prima persona di Tilde Manentini, nata nel 1920, che, abbandonata anzitempo e controvoglia la scuola, dal 1938 al 1978 presta servizio come infermiera nel manicomio in fondo al corso: quarantanni con i matti di dentro e con altre forme dimpazzimento del fuori. È un monologo misurato lungo unintera esistenza, il racconto di una giovane donna figlia di una madre essenzialmente bigotta e intimorita dal mondo e di un padre che non ha conosciuto. Le dicono che è morto in guerra a Caporetto, ma le date non coincidono: scoprirà, ancora bambina, che suo padre sta in carcere a Capraia, condannato allergastolo per aver ucciso un fattore che lo voleva cacciare dalle sue terre. Tilde ha anche un fratello, che presto partirà per lArgentina e che rimarrà di fatto a lei sconosciuto anche dopo il suo ritorno.
La povertà è la spiegazione che più spesso Tilde dà delle follie dei matti. Troppe le privazioni che la vita ha riservato a tanti di quei contadini sporchi e affamati che altri parenti portano al batuscio: la porta-muro trabocchetto per linternamento forzato dei pazienti. Ma poi più volte ci dice che a far diventar matti cè un mistone di cause, una mistanza avrebbe detto mia madre e che pure certi benestanti vengono portati allex fortezza dei Duchi della Rovere, perché di quelli che perdono la ragione il mondo non sa che farsene e i parenti se ne vergognano, al di là della gerarchia sociale.
Dal microcosmo di dolore del manicomio, la voce di Tilde finisce per raccontare tutta unItalia di provincia furba, perbenista, sessuofoba, eternamente a metà strada tra commedia e tragedia. La carrellata dei personaggi che Tilde passa in rassegna è lunga e assai efficace: dallElettricista, ovvero uno dei primari affezionato praticante dellelettroshock, alle suore dalla più carogna a quella dolcissima ai dottorini, ai degenti divisi tra uomini e donne e tra Tranquilli e Agitati. Poi cè la sua vita, la famiglia, con il marito Delfo e la figlia Floriana, ma è in quel manicomio che Tilde si sente più a suo agio. Quarantanni saturi dellodore di disinfettanti che si concludono con la pensione, in contemporanea allapplicazione della legge Pazzaglia, come la chiama Tilde, un po scherzando un po marcando una reale diffidenza verso lapproccio di liberare tutti i matti.
Dove andranno quelli che non vuole nessuno o che non hanno nessuno? Se lo chiede spesso linfermiera di lungo corso e, quando ormai in pensione e vedova prende la via in fondo al corso, scopre che il degrado e la pazzia non sempre si cancellano per legge. La biografia di Franco Basaglia (1924-1980) più o meno coincide con quella immaginata da Teobaldi per Tilde: ma non sono due maniere contrapposte di pensare il reinserimento dei malati di mente nella vita sociale. Il mio manicomio dà conto di una possibile biografia di unitaliana straordinaria per altruismo e ironia, un percorso che la lingua adottata da Teobaldi con tanto di dizionarietto a margine prescolare, autodidatta e con forti echi della parlata orale rende molto convincente, vicina.