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Scene da un manicomio

Autore: Michele De Mieri
Testata: L'Unità
Data: 19 marzo 2007

Dai tanti angoli della provincia arrivano ancora storie esemplari, racconti di un’Italia che si è più volte smarrita e altrettante volte ritrovata tra povertà, monarchia, fascismo, guerra, mezzadria, fabbrica, comunismo, democrazia cristiana, emigrazione, benessere. Nuove e vecchie paure, opportunismi misti a sinceri slanci ideali occupano il racconto di quella vicenda novecentesca che è il farsi moderno delle diverse regioni del nostro paese. A presidiare una di queste piccole aree è il sessantenne pesarese Paolo Teobaldi. Come già in altri suoi precedenti libri, Teobaldi ci racconta una porzione della sua terra, la parte delle Marche settentrionali stretta tra la Romagna e la Toscana.

Dopo il presente del precedente La badante, è al secolo passato che Teobaldi si dedica ora con Il mio manicomio, racconto in prima persona di Tilde Manentini, nata nel 1920, che, abbandonata anzitempo e controvoglia la scuola, dal 1938 al 1978 presta servizio come infermiera nel manicomio “in fondo al corso”: quarant’anni con i matti di dentro e con altre forme d’impazzimento del fuori. È un monologo misurato lungo un’intera esistenza, il racconto di una giovane donna figlia di una madre essenzialmente bigotta e intimorita dal mondo e di un padre che non ha conosciuto. Le dicono che è morto in guerra a Caporetto, ma le date non coincidono: scoprirà, ancora bambina, che suo padre sta in carcere a Capraia, condannato all’ergastolo per aver ucciso un fattore che lo voleva cacciare dalle sue terre. Tilde ha anche un fratello, che presto partirà per l’Argentina e che rimarrà di fatto a lei sconosciuto anche dopo il suo ritorno.

La povertà è la spiegazione che più spesso Tilde dà delle follie dei matti. Troppe le privazioni che la vita ha riservato a tanti di quei contadini sporchi e affamati che altri parenti portano al batuscio: la porta-muro trabocchetto per l’internamento forzato dei pazienti. Ma poi più volte ci dice “che a far diventar matti c’è un mistone di cause, una mistanza avrebbe detto mia madre” e che pure certi benestanti vengono portati all’ex fortezza dei Duchi della Rovere, perché di quelli che perdono la ragione il mondo non sa che farsene e i parenti se ne vergognano, al di là della gerarchia sociale.

Dal microcosmo di dolore del manicomio, la voce di Tilde finisce per raccontare tutta un’Italia di provincia furba, perbenista, sessuofoba, eternamente a metà strada tra commedia e tragedia. La carrellata dei personaggi che Tilde passa in rassegna è lunga e assai efficace: dall’“Elettricista”, ovvero uno dei primari affezionato praticante dell’elettroshock, alle suore – dalla più carogna a quella dolcissima – ai dottorini, ai degenti divisi tra uomini e donne e tra Tranquilli e Agitati. Poi c’è la sua vita, la famiglia, con il marito Delfo e la figlia Floriana, ma è in quel manicomio che Tilde si sente più a suo agio. Quarant’anni saturi dell’odore di disinfettanti che si concludono con la pensione, in contemporanea all’applicazione della “legge Pazzaglia”, come la chiama Tilde, un po’ scherzando un po’ marcando una reale diffidenza verso l’approccio di liberare tutti i matti.

Dove andranno quelli che non vuole nessuno o che non hanno nessuno? Se lo chiede spesso l’infermiera di lungo corso e, quando ormai in pensione e vedova prende la via in fondo al corso, scopre che il degrado e la pazzia non sempre si cancellano per legge. La biografia di Franco Basaglia (1924-1980) più o meno coincide con quella immaginata da Teobaldi per Tilde: ma non sono due maniere contrapposte di pensare il reinserimento dei malati di mente nella vita sociale. Il mio manicomio dà conto di una possibile biografia di un’italiana straordinaria per altruismo e ironia, un percorso che la lingua adottata da Teobaldi – con tanto di dizionarietto a margine – prescolare, autodidatta e con forti echi della parlata orale rende molto convincente, vicina.