Ci sono tanti modi di raccontare un lungo arco della storia di un paese, ma quello che ha scelto Paolo Teobaldi ne Il mio manicomio (edizioni e/o), è decisamente originale. Lautore si affida alla voce di uninfermiera, Tilde, la quale, ancora bambinetta scopre che il babbo non è affatto morto in guerra, ma in prigione, dopo aver ammazzato un altro uomo. A undici anni Tilde è già al lavoro, per portare qualche soldo in casa. E a diciotto diventa infermiera in manicomio, restandovi per quarantanni: dal 1938 al 1978.
Proprio da quel panopticon di segregazione e sofferenza, Tilde osserva i mutamenti del mondo, convinta di non esser diventata lei stessa matta per un soffio: Anchio, per direr, che non avevo mai conosciuto mio padre, potevo finire in fondo al corso, e diventare una di queste povere matte che dringolano avanti e indietro senza riuscire a fermarsi, che sbasoffiano canzoni che sanno solo loro, sotto locchio distratto di due-tre infermiere e di una suora, che intanto dice il rosario.
Dopo quellesperienza così dura, una sola cosa è certa. Che sui manicomi è meglio non far teorie: Se la Cafiera veniva a dire allassemblea sindacale che era uno schifo, che il manicomio era rimasto lo stesso dai tempi del Lombroso, io le dicevo in faccia che lei non capiva niente, che non era vero, che da prima della guerra era cambiato tutto. Per contro, Tilde non è meno brusca con gli ottimisti di maniera: Se poi un dottorino, uno di quei piscialletto, veniva a dire che con le nuove terapie, col cortisone, con gli ormoni o con gli psicofarmaci, lospedale psichiatrico sarebbe cambiato come dal giorno alla notte, io gli dimostravo che non era cambiato niente dal tempo delle botte e dellacqua ghiaccia, dei setoni e dei letti di contenzione, a parte qualche ritocchino di facciata. Come dice il proverbio? Stucco e pittura, fa bella figura.