Cè un cane che sparisce e una padrona convinta che labbiano rapito, per cucinarlo, i cuochi cinesi di piazza Vittorio, il cuore multietnico di Roma dove le civiltà a volte si incontrano e altre si scontano. E cè un giovane e prepotente vicino di casa che viene trovato morto in ascensore. Un ascensore che è una metafora della vita: sale, scende, qualcuno lo scambia per un cesso, a qualcuno è precluso, qualcun altro lo evita.
Poi ci sono le indagini, le diverse verità dei testimoni, i pregiudizi fra portiera e inquilini, fra italiani e stranieri, fra milanesi e romani, fra romanisti e laziali, fra musulmani ferventi e moderati. E soprattutto, in Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio cè lo sguardo smagato e divertito dello scrittore algerino Amara Lakhous sulle nostre affannate radici cristiane alle prese con sconcertanti fioriture. Uno sguardo piuttosto contaminato, perché Lakhous, che vive a Roma dal 1995, in questi anni ha sviluppato due smodate passioni: il Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda e la commedia allitaliana. Al primo ha rubato il linguaggio, quel flusso di coscienze e parlate che scorreva nel palazzo di via Merulana; la seconda, invece, lha aiutato a inquadrare con il dovuto distacco la sua nuova patria.
A chi non è di Roma gioverà sapere che Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è ambientato dietro piazza Vittorio, la stessa Roma umbertina, carnale, pesante, nata a fine 800 per i piemontesi, estranei ai romani di allora come gli stranieri che lhanno colonizzata a fine 900.
Lakhous ha abitato qui per due anni, in un centro di accoglienza. Ci arrivò, appena fuggito da Algeri, dove si era laureato in filosofia e faceva il giornalista per la radio nazionale. Mestiere ad alto rischio, allepoca: il Gruppo islamico armato invitava a «combattere con la spada quelli che ci combattono con la penna».
Nel palazzo di piazza Vittorio cera un ascensore e una portiera. È stato quellascensore, e le dispute sulluso che se ne faceva, a dargli lidea del suo secondo romanzo. Il primo, Le cimici e il pirata, cronache tragicomiche della vita sotto il terrore, aveva già cominciato a scriverlo ad Algeri.
Ci stava male ad Algeri, Lakhous. Non solo per la paura delle imboscate. O perché, al mattino, prima di uscire, evitava di guardare sua madre e cercava di fissarsi nella memoria quel momento, che forse non si sarebbe più ripetuto.
«Crollavano i punti fermi della nostra società: la fede si era trasformata in un motivo di conflitto. La guerra di liberazione in uno strumento di potere. Il petrolio, la nostra fortuna, in corruzione».
Senza vie duscita, il giovane Lakhous pensò al suicidio, poi si ridimensionò: lalcol. Ma anche questa gli sembrava una forma di autodistruzione troppo volgare e quindi, svuotata nel gabinetto la prima bottiglia che doveva introdurlo al vizio, trovò la vera evasione: il romanzo. Ne aveva letti tanti, a quindici anni, Madame Bovary era stato una folgorazione, ma adesso si trattava di scriverlo. Buttò giù il primo capitolo di Le Cimici e il pirata e poi partì per Roma.
Arrivò da profugo. «Ma non mi sentivo una vittima, avevo 25 anni: non spezzavo una vita, ne costruivo una nuova». Detto fatto. In due mesi, con le lezioni della Casa dei diritti sociali e le quotidiane visite alla Biblioteca nazionale, imparò litaliano. Sempre per la Casa lavorò come mediatore culturale. Nel frattempo, prese una seconda laurea, in Antropologia, e pubblicò a sue spese il primo romanzo, in arabo e in italiano con leditore Arlem: originale e traduzione si incontrano a metà volume. Ora ha un contratto di due anni con la redazione internazionale dellAdn Kronos: racconta agli arabi cosa succede da noi.
Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è stato scritto e pubblicato prima in arabo con un titolo che suona più o meno così: Come farsi allattare dalla lupa senza che ti morda. Alledizione algerina del
2003 ne è seguita una libanese. La versione italiana non è una traduzione, ma una riscrittura. «Per il primo romanzo discussi tre giorni e tre notti con un caro amico italiano, grande conoscitore dellarabo, che ne aveva curato la traduzione: non capivamo più a chi apparteneva il testo. Così stavolta ho fatto da solo, aggiungendo frasi e dettagli che per gli arabi non significano niente. E chiedendo, come Gadda, consulenze sul modo di parlare dei romani, dei milanesi, dei napoletani, ma anche degli iraniani e dei bengalesi».
Il background da antropologo lha aiutato a ricostruire il linguaggio di questa Babele, che, nelle due versioni, contamina arabo e italiano. Ma gli è servito anche per vedere oltre gli orgogli e i pregiudizi nazionalistici.
«In dieci anni, ho vissuto tante cose di questo paese e me ne sono perse altrettante in Algeria. Qui ho pianto al funerale di Alberto Sordi, cero per lo scudetto alla Roma e quando è morto il papa: come posso sentirmi ospite?».
Lakhous sostiene che le identità si plasmano negli ambienti, negli eventi. «Conosco musulmani che hanno cominciato a pregare solo dopo l11 settembre, perché si sentivano persi, bisognosi di qualcosa cui attaccarsi. E capisco che un cristiano si ponga delle domande quando vede che nella sua chiesa non ci sono ragazzi, mentre nella grande moschea di Roma ci sono soprattutto giovani. Però la soluzione non è trovare un capro espiatorio. Non è che accusando gli arabi di figliare come topi, come fa Oriana Fallaci, si risolvono i problemi di denatalità dellOccidente».
Ma come reagisce un arabo colto e moderato a La rabbia e lorgoglio o alle magliette di Calderoli? Con filosofia. «Per capirli e apprezzarli bisogna conoscere la commedia allitaliana. Solo che Sordi recitava e loro fanno sul serio. Ho trovato impagabile il ministro Calderoli che diceva: Tra poco Bossi tornerà e saranno cavoli, per tutti. E la Fallaci che paragona la democrazia al cioccolato distribuito dagli Alleati nel dopoguerra? Italiani e tedeschi potevano assaporarlo, gli arabi no. Cè dentro il maiale forse?». Giusto. Ma come la mette con un musulmano torvo e bigotto? «Stessa tolleranza e curiosità: potrebbe essere lo spunto di un romanzo».