Divorzio all'islamica a viale Marconi
Autore: Cristina Delogu
Testata: Global Stories
Data: 30 novembre 2010
“La prima domanda che ti fanno sempre è: come ti chiami? Se hai un nome straniero si crea immediatamente una barriera, una frontiera insuperabile fra il ‘noi’ e il ‘voi’. Il nome ti fa sentire subito se sei dentro o fuori, se appartieni al ‘noi’ o al ‘voi’. Un esempio? Se vivi a viale Marconi e ti chiami Mohamed vuol dire automaticamente che non sei un cristiano o un ebreo, ma un musulmano. Giusto? Molto probabilmente non sei nemmeno italiano perché i tuoi genitori non lo sono. E allora? Allora niente. Non conta se sei nato in Italia, hai la cittadinanza italiana, parli perfettamente l’italiano eccetera eccetera. Mio caro Mohamed, agli occhi degli altri non sei (e non sarai mai) un italiano doc, un italiano al cento per cento, un italianissimo. Diciamo che il nome è il primo marchio della nostra diversità. “
Proprio di questa “diversità” si parla in Divorzio all’islamica a viale Marconi, e spesso quel ‘noi ‘ e quel ‘voi’ si mescolano, si invertono. I capitoli si susseguono alternando i punti di vista di Issa e di Sofia. Issa, alias Christian, è un giovane siciliano che parla perfettamente l’arabo e conosce molto bene il Maghreb e per questo è stato infiltrato dal Sismi in un gruppo di immigrati musulmani che gravita intorno a viale Marconi, una zona molto popolata ai bordi del centro di Roma. Sofia, alias Safia, è la moglie egiziana di un immigrato architetto-pizzettaio e che lavora clandestinamente come parrucchiera.
Questa struttura del romanzo ci rende liberi dal dare giudizi, trasformandoci in osservatori esterni di un mondo in divenire. Bastano i pareri e i giudizi di Issa e Sofia, a volte duri, a volte interlocutori, non servono i nostri. Anzi noi possiamo liberamente specchiarci in quel mondo, immedesimarci, riconoscerci, capire.
“Continuo a pensare con la mia testa da italiano, non riesco a mettermi nei panni degli immigrati extracomunitari. Molti dei concittadini non capiscono perché i negozi degli immigrati nelle città italiane siano aperti anche di domenica. Ma è una cosa normale. Qui in Italia ci vengono per lavorare, non per riposare. Insomma, non sono turisti! Il paese di accoglienza diventa una sorta di fabbrica, dove si lavora e si accumulano quattrini”. Basta una frase di Issa, anche apparentemente scontata, per aprirci un mondo. Per riuscire a vedere finalmente quel mondo parallelo al nostro, con cui ci sfioriamo tutti i giorni illudendoci di capirlo, pensando che siamo tutti uguali. Ma non è così. Siamo uguali solo nelle emozioni, nella paura, nella speranza, nell’attesa, nei sogni, nell’amore. E non è poco. Ma le nostre vite non sono uguali.
“L’architetto [...] guarda fino all’alba i canali satellitari (soprattutto Madame al-Jazeera). [...] E’ molto informato sui fatti della politica internazionale come la guerra in Iraq, il nucleare iraniano, gli Hezbollah, Hamas eccetera eccetera. [...] Di quel che capita in Italia, al contrario, non sa quasi nulla. la sua teoria è molto semplice: se al-Jazeera non ne parla vuol dire che qui non succede nulla di importante. Mi raccomanda sempre di non fidarmi dei media italiani. Perché? Ma perché parlano sempre del’Islam in modo negativo: una religione di odio e di violenza che incita alla guerra santa. [...] Io non sono d’accordo con l’architetto. Gli ho detto mille volte che si sbaglia di grosso. Quando uno vive in un paese deve dare la precedenza alle notizie locali. [...] Io voglio sapere come stanno le cose qui a Roma, non a Kabul o a Bagdad! Chiaro? I canali satellitari sono diventati delle vere trappole per gli immigrati arabi. Creano una dipendenza dal paese d’origine. Come si fa a vivere scissi fra due paesi? Io non posso seguire le informazioni quotidiane dell’Italia e del mondo arabo allo stesso tempo. Bisogna scegliere. Non è così complicato. o sbaglio?”. Non mi sembra per niente strano che sia Sofia, una donna, a sentire l’esigenza di capire meglio il paese dove vive e dove sta crescendo sua figlia. Prima di suo marito, che da uomo fa più fatica ad aprirsi al nuovo paese, è più rigido, come molti degli uomini in questo romanzo, spesso seduti insieme davanti alla tv a guardare e commentare le notizie di “Madame” al-Jazeera, ignari di quello che sta succedendo a un passo da loro.
Sofia non parla solo degli immigrati, parla anche di noi: “Il velo non è sempre di stoffa, ci sono altri trucchi paragonabili al nostro velo, che nascondono altre parti del corpo. E allora? Allora niente. Insomma il seno rifatto nasconde il seno originale, il naso rifatto nasconde il naso originale, le labbra rifatte nascondono le labbra originali e così via. [...] La libertà femminile non può ridursi a una questione di vestiti.” Così ragiona Sofia e viene voglia di incontrarla per continuare a parlare con lei anche dopo la fine del romanzo.
A proposito della “fine del romanzo”, ieri sono stata alla presentazione del libro e Amara Lakhous concludendo la serata ha detto tra l’altro che alcuni suoi amici che avevano letto il libro prima della pubblicazione si erano lamentati con lui del finale “non finito” e del fatto che la possibile storia d’amore, di cui non vi dico altro, era rimasta incompiuta. Amara ci ha detto che ha provato a scriverne uno alternativo, “più finito” ma che non l’ha convinto e così ha lasciato il vecchio finale. E meno male! perché a me è piaciuto moltissimo. Infatti il finale nega un po’ tutta la storia e se comprendesse anche la storia d’amore negherebbe anche quella, e invece così possiamo immaginarcela come vogliamo. E io so come. Grazie Amara!