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Piazza Vittorio, Roma. Scontro di civiltà in miniatura

Autore: Elisabetta Ambrosi
Testata: Reset
Data: 4 ottobre 2006

Sull’ascensore aria condizionata o no? Riscaldamento o no? Foto del Papa o no? E’ un po’ il simbolo dell’Italia di oggi il condominio romano in cui il giovane scrittore algerino Amara Lakhous ha ambientato il suo Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Un giallo, un successo letterario (premio Flaiano), una riflessione sull’identità, uno sguardo pieno di amarezza e disincanto sull’immigrazione nell’Italia di oggi. Da parte di un immigrato che ha già imparato a conoscerci.

«Non è zingaro, è iraniano». Così il protagonista del volume del giovane algerino Amara Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (Assolo, 2006, euro 12, pp. 189) risponde a una donna italiana a proposito di un giovane tacciato senza ragione di essere uno spacciatore. Basta forse questa breve battuta per esprimere tutta la difficoltà di chi arriva in Italia sperando nella salvezza dalla disperazione e dalla morte e si trova a essere etichettato con rozzezza da persone che non conoscono neppure da quale continente si arrivi. È uno sguardo pieno di amarezza e disincanto – lo stesso dell’autore, che ha vissuto sei anni a Piazza Vittorio – quello di Amedeo, immigrato colto, con perfetta padronanza dell’italiano e profondo conoscitore delle strade di Roma. È lui che commenta, «ululando» di gioia e dolore, tutto ciò che avviene nel palazzo di Piazza Vittorio, «simbolo dell’Italia di oggi», che sta al centro di questo romanzo, e attorno a cui girano tanti e disparati personaggi, ognuno con il suo punto di vista, la sua visione del mondo e dell’altro, visioni spesso tragicamente incompatibili.

Il palazzo, luogo di convivenza, diventa portatore di sguardi diversi e opposti sulla vita, «non solo tra emigrati e italiani» ci ricorda l’autore «ma anche tra italiani e italiani, tra milanesi e napoletani ad esempio». L’ascensore a sua volta è metafora dello spazio pubblico comune, dove si stenta a trovare convergenze («Non c’è consenso tra gli inquilini a questo proposito: c’è chi vuole mettere l’aria condizionata d’estate e il riscaldamento d’inverno, c’è chi propone di mettere il crocefisso e la foto di del papa e di Padre Pio e chi rivendica un ascensore laico senza nessun simbolo religioso»). Ci dice l’autore: «L’ascensore è la metafora, perché è uno spazio limitato, la gente è obbligata a condividerlo con altre persone, è un ascensore che va su e giù, potrebbe anche guastarsi ogni tanto, è un pretesto per raccontare i vari malintesi che ci sono».

Il bel libro di Lakhous, vincitore del premio Flaiano, è dunque una riflessione sull’assenza di dialogo e sugli equivoci che ne derivano. L’autore utilizza il genere del giallo per poter raccontare uno scontro di civiltà in miniatura, quello che sarà l’Italia di domani. «Ho usato il giallo per attirare l’attenzione su quello che sta accadendo, perché quest’ultima si attiva quando c’è l’emergenza. Quindi mi sono detto: qui ci vuole un cadavere», dice Lakhous. La difficoltà ad incontrarsi emerge direttamente attraverso il resoconto delle voci degli abitanti del palazzo. C’è la donna di servizio peruviana, che ricorda alla portiera che lei non è filippina, perché viene dal Perù e dice con estrema lucidità: «So che lei è di Napoli, ma non l’ho mai offesa chiamandola La Napoletana». C’è l’aiuto cuoco iraniano, che si domanda «Ma chi è italiano? Chi è nato in Italia, ha passaporto italiano, carta d’identità, conosce bene la lingua, porta un nome italiano e risiede in Italia?». E afferma di aver «lavorato nei ristoranti di Roma con molti giovani napoletani, calabresi, sardi, siciliani», scoprendo «che il nostro livello linguistico è quasi lo stesso».

C’è il proprietario del bar che ricorda come «il più grande giocatore di tutti i tempi, Paulo Roberto Falcao» era straniero, così come «Piedone, Cerezo e Voeller», giocatori che hanno «fatto la gloria della Roma». Lo stesso Amedeo, nel suo diario in cui commenta gli eventi e i personaggi che ruotano nel microcosmo del palazzo, si chiede come abbiano fatto gli italiani a dimenticare quando erano loro stessi ad essere immigrati e commenta amaro: «Sembra proprio che gli italiani non abbiano imparato nulla dalle lezioni del passato». C’è infine il commerciante algerino, che critica l’uso di cambiare il proprio nome italianizzandolo, definendolo un vero e proprio «peccato capitale». È invece una pratica fortemente diffusa, che finisce per umiliare chi, oltre a lasciare tutto, perde anche il suo stesso nome.

Il libro di Lakhous è anche un’occasione per raccontare la sofferenza di chi emigra, sebbene l’autore non voglia definirlo un libro sull’emigrazione. La comicità che deriva dall’alternarsi dei punti di vista e dalla caratterizzazione dei personaggi lascia trapelare una denuncia del dramma dei senza patria. Lakhous sottolinea che il motivo della fuga non è mai futile, ma sempre legato al dolore e alla minaccia: una cosa ovvia, eppure spesso dimenticata. Dice Amedeo: «Sono fuggito da Shiraz perché minacciato, se torno in Iran troverò la corda ad aspettarmi! Non mi è mai passato per la mente di lasciare l’Iran. E poi come avrei potuto abbandonare i miei bambini, mia moglie, la mia casa, il mio ristorante e Shiraz, se non per sfuggire alla morte! Io sono un rifugiato, non un immigrato».

L’autore si sofferma inoltre sulla solitudine estrema di una vita in esilio. Dice la badante peruviana: «Soffro di una terribile solitudine, che a volte mi fa accarezzare la follia. Guardo la tv tutto il giorno e mangio tanto». Ancora, la difficoltà di lavori non solo umilianti ma anche psicologicamente difficili da sostenere, come la cura degli anziani («Non sono l’unica che ha a che fare ogni giorno con la morte incalzante. Siamo tanti, e ci unisce il destino del lavoro comune con gli anziani in procinto di passare all’altro mondo da un momento all’altro. Con il passare del tempo ci trasformiamo in cani randagi»). Infine, la nostalgia, sempre presente, sempre incalzante («La malattia sveglia in me il diavolo della nostalgia o la belva – come la chiamiamo noi – che è la paura di morire: morire lontano dagli sguardi dei cari, morire solo, morire lontano dalla mamma. Che angoscia una tomba in esilio che raccoglie i tuoi resti!»).

Così, da libro giallo, da commedia all’italiana il libro diventa anche uno strumento di riflessioni esistenziali non solo sullo scontro tra culture e sulla sofferenza, ma anche sui temi della memoria e dell’identità. «La gente felice non ha né età né memoria, non ha bisogno del passato». Da un lato, c’è la speranza di potersi liberare di un passato che incombe e rende l’immigrato incapace di vivere senza incubi il presente. Dall’altro, c’è un invito filosofico ad abbandonare i miti identitari, fonte per antonomasia di conflitto: «È meraviglioso potersi liberare dalla catene dell’identità che ci portano alla rovina. Chi sono io? Chi sei? Chi sono? Sono domande inutili e stupide». Il libro, tuttavia, non vuole essere un libro tragico. «La mia è una visione ottimistica. Io non sono assolutamente convinto dell’ineluttabilità dello scontro di civiltà, quelli che vedo sono malintesi culturali e religiosi, ma basta chiarirli per entrare in un dialogo serio», conclude Lakhous.